Io, Eugenio Anodi – parte IV

Un’altra prova del fatto che non tutti gli insegnanti siano sfigati sta nell’altro fatto che io ho una compagna. Molti colleghi mi pare che abbiano il compagno o la compagna, quindi mi viene da pensare che sfigati fino a un certo punto. Lo so perché, pure che io ho una compagna, se noto qualche collega carina, approfondisco l’amicizia e la conoscenza. Non perché io sia un traditore, ma perché sono uno che gli piace sedurre. Però, spesso, capita che ci sono delle colleghe carine che di solito hanno due atteggiamenti: c’è quella che minimizza qualsiasi possibilità di incontro, che fa finta di non vedere per non salutare, che assume sempre un aspetto serioso, non solo nello sguardo, ma anche nel contegno e nel modo di vestire; è quella che un tempo avremmo detto pudica, ma che oggi definiamo meglio con il termine antipatica. Poi c’è la collega carina che invece non ha problemi nello stringere amicizia, nell’approcciarti per favorire la conoscenza: il suo piano continua con l’affacciarsi con puntualità nelle stanze e negli uffici che la routine permette di individuare facilmente, quelli in cui ci sei te, o almeno così ti pare. Finché, a freddo, ti dice che è sposata e che ha figli. Da lì non fa che parlare del marito e dei figli; è quella che un tempo avremmo detto una donna felina, simpatica, e che oggi definisco con soddisfazione noiosa e vana.

Mi piace il termine vana, che ritengo la forma moderna del leopardiano vago; ma se questo aveva un’accezione positiva, il mio vana ha un’accezione negativa, nel contesto di questa società materialistico-consumistica nella quale viviamo, per la quale non si dà rapporto senza interesse, sia esso indotto dal carattere della persona o dalla sua fame. Mi piace pensare che tra i due termini vi sia una corrispondenza sul piano della forza poetica, sebbene io non sia assolutamente un poeta lontanamente paragonabile a Leopardi, perché in questo caso io, fortunatamente, non sono proprio poeta e quindi non può, fortunatamente, sussistere un confronto a priori.

Io amo la mia compagna, ne abbiamo passate tante. In realtà continuiamo a passarne di ogni, perché non prendiamo mai nessuna decisione. Io ci ho provato, ma io sono abituato a svolgere una vita solitaria, studiando, leggendo e scrivendo a più non posso. Pure, quando non svolgo una vita solitaria, quando cioè sono a scuola o agli incontri culturali, sono in una posizione di dominio, per la quale le decisioni le prendo io per gli studenti, o in una posizione di subordinazione ai dotti, per la quale le decisioni le prendono loro, e di solito sono quelle di guardarmi con aria altezzosa; oppure, ancora, sono in una posizione di indifferenza verso gli altri esponenti della platea in cui mi trovo, per la quale posizione io decido in solitaria di abbandonare l’udienza con fare indignato, cosa che passa di solito inosservata e non desta discussioni. Insomma, io sono abituato a prendere decisioni per mio conto, e quando si tratta di decidere insieme non si decide mai nulla.

Mi capita lo stesso durante i viaggi: io viaggio da solo, ché mai nessuno ha modo, tempo, voglia, possibilità di venire in viaggio con me. La cosa mi dispiace un sacco, perché a volte ci si annoia ad essere intellettuali tutto il tempo – ché io, quando vado in viaggio, di solito faccio viaggi di interesse intellettuale o culturale. In più ci sono cose che non posso fare da solo, ma forse è il caso di sorvolare, ché non vorrei ferire la frangia pudica e antipatica dei miei lettori.

Io viaggio spesso da solo, e quando viaggio insieme agli altri, quelle poche volte, si finisce per stare ore a discutere sul da farsi, senza far nulla, se non discutere. Chi vuole andare di là, chi vuole andare di qua, ma nel mentre ci si ferma a vedere cose che non hanno alcun interesse per me, tanto che alla fine le cose che non posso fare superano le cose che potrei fare stando con gli altri, e alla fine della fiera mi pare che viaggiare da solo sia sempre la cosa migliore. Comunque, neanche la mia ragazza, spesso e volentieri, ha modo, tempo, voglia, possibilità di venire in viaggio con me. Io sono un docente, il lavoro di intellettuale non me lo paga nessuno, e quindi pur lavorando diciotto ore al giorno, a volte, ma comunque non mai meno di dieci, non posso permettermi di pagarle il viaggio o di farle guadagnare modi, tempi, e altro. Credo che abbia solo la voglia di venire – ma del resto chi è che non avrebbe voglia di venire? È vero, ho scritto questa frase, ma me ne pento già, che le persone che non hanno voglia di venire sono più numerose di quanto i miei quattro lettori e più possano pensare.

Mi piace pensare che la mia compagna abbia la voglia di venire in viaggio con me, e non viene solo perché le mancano modi, tempi, possibilità. Ché altrimenti sarebbe un bell’affare. Ora che mi ci fate pensare la mia è solo una speranza, ché col fatto che non siamo mai andati in vacanza per mancanza di quel che sapete già, io non saprei dirvi se lei abbia davvero anche la voglia di venire, in vacanza con me. Dovrei approfondire la questione: cercare di individuare un periodo in cui lei potrebbe senz’altro avere il tempo di venire; cercare di individuare una località per la quale lei avrebbe senz’altro modo di venire; cercare di mettere da parte qualche soldo per offrirle senza problemi le possibilità di cui non dispone per venire. Ho senza dubbio il tempo, il modo, la possibilità di fare tutto ciò, ma ammetto a malincuore che me ne manca la voglia. E poi non voglio assolutamente saperne di tutto ciò: cosa farei se scoprissi che lei, in fondo, non ha voglia di venire? Dovrei ammettere che tutto il nostro rapporto è stato una sconfitta, che non siamo fatti l’uno per l’altra, che avrei dovuto notare subito che il nostro rapporto era sbilanciato sul piano dei desideri e della volontà di condurre una vita degna di un intellettuale; constatare che del resto io ero stato avvisato, che era evidente che il vero motivo era quello, che non era possibile che mancassero sempre modi, tempi, possibilità di venire; che io sì, ero un intellettuale, ma mica poi tanto se non riuscivo a notare neanche questo. E chissà cos’altro.

A ben guardare dovrei approfondire la questione, ma mi rendo conto che non avrei modo, né tempo, né possibilità, pure che avessi la voglia. Stiamo bene così come stiamo, senza necessità di prendere decisioni insieme, decisioni che richiedono molto tempo, molta voglia di ragionare, molte possibilità e probabilmente, pure se non ne sono certo, molti modi di qualcosa che non saprei ora definire.

Comunque, il fatto che molti miei colleghi abbiano compagni, mi fa sentire un docente a tutti gli effetti. Non è come altrove. Ho diversi amici, conosciuti ai tempi dell’università, che lavorano in ambienti stimolanti e invidiabili, pieni di colleghi giovani e single, conducendo una vita che, vista dalla prospettiva dell’insegnante, sta a vedere che risulta più evidente il fatto che oggi fare il docente è un po’ da sfigati. Soprattutto se si è giovani, ché i colleghi sono tutti di mezza età, con compagni, oppure sposati, che finisce che anche quelli che sono giovani hanno compagni e magari sono pure sposati e quindi, a ben vedere, pare che siano di mezza età pure loro. Anche perché negli incontri culturali non ho mai visto nessuno dei miei colleghi giovani, quindi immagino che abbiano delle incombenze tipiche delle persone di mezza età, o, come loro, condividano il fatto che con il tempo a uno gli passa l’interesse. Ma allora, non capisco, io sono uno sfigato come gli altri oppure io sono l’eccezione che conferma la regola?

Ecco, questa storia di trovarmi sempre nella situazione che io sono l’eccezione che conferma la regola comincia a stancarmi. Mi sono abituato a questa cosa? Dovrei, perché come vi avevo detto – e il mio lettore sta già prendendo il bicchiere di brandy in mano – io sono un anticonformista, quindi sono abituato a trovarmi nella posizione di chi è d’eccezione. La cosa mi va pure bene, ma il fatto che io, in quanto eccezione, debba confermare qualche regola, magari più di una, questa cosa non mi è mai andata giù. Io sono un anticonformista, ché come sapete, a suo modo, è un modo di essere conformisti. Lo sono sempre stato perché non mi piacciono le regole: ecco perché il freddo, per me, è più importante del fatto di apparire talvolta senza camicia e giacca. Che poi a ben vedere io non li indosso perché semplicemente non ho voglia, perché sono un anticonformista e della formalità, a volte, me ne fregio – sì, è una citazione colta, che non ha bisogno di essere spiegata, perché il mio lettore colto sta già sorseggiando whiskey, meditando se non sia il caso, dopo questa, di mettere mano pure al sigaro; il mio altro lettore poco sorvegliato non sa e probabilmente non ha interesse nel cogliere queste sfumature vane, o forse dovrei dire vaghe – in senso leopardiano naturalmente; poi sono certo che ci abbia già lasciati.

Comunque, vi dicevo, è vero, che io sono un anticonformista e sono anticonformista perché io le regole, guardate, non mi piacciono. È una posizione di grande difficoltà, perché la società non è costruita per integrare o prevedere persone anticonformiste, quindi è un percorso incidentato. Ma l’anticonformista, o almeno, io, in questo percorso incidentato, mi ci crogiuolo, perché il mio essere anticonformista rappresenta un essere in disaccordo con la società, e ogni volta che il mio essere anticonformista mi porta in disaccordo con la società, perché la suddetta società non integra né prevede l’essere anticonformista, io trovo una giustificazione al mio essere anticonformista, persona sofferente, persona anche insofferente, soprattutto alle regole, e quindi il fatto che io debba confermarle mi manda davvero in ghingheri. A volte medito di dar fuoco a qualcosa, proprio per dimostrare che io, queste regole… ora che ho bruciato l’agenzia delle entrate vi ho dimostrato che queste regole non le sopporto e le trovo ingiuste? questo mi chiedo e mi figuro talvolta. Comunque forse sto esagerando con le convoluzioni e le finezze, ma quel lettore – spero non abbia acceso il sigaro, ché la lettura di questo libro non mi pare uno di quegli eventi per i quali valga davvero la pena accendere un sigaro; cioè, io soprattutto non vorrei alimentare un vizio o un fare peccaminoso tipico di un certo mio lettore, che non vede l’ora di farsi un brandy e accendersi un sigaro e trova occasioni in ogni dove, tipo il mio libro; che poi arriva una compagna, o una sposa, e dice perché ti sei acceso un altro sigaro e persisti a bere il tuo brandy, ché ti fa male? Al che il mio lettore dà la colpa a me, dicendo che questo libro che sta leggendo è pieno di trovate che sì, da una parte sono un po’ datate e forse poco originali, ma che comunque vellicherebbero il ventre di un qualsiasi dotto, e che certe letture di gusto chiamano la necessità di essere accompagnate con vezzi quali rhum e sigari, anzi, c’è un po’ di cioccolato? starà magari chiedendo questo lettore un po’ viziato. Io non voglio viziare nessuno, men che meno voglio vellicare alcun ventre ai dotti, che sono convinto continuerebbero a guardarmi con aria diffidente e financo accigliata; o forse scoppierebbero addirittura a ridere per il solletico. Questo lettore, comunque, dicevo, con quel suo brandy e i suoi sigari messi lì, in posa, senza essere consumati, vellica la mia espressività virtuosa, che è un po’ ispirata da altri, sì, ma che è sempre attuale; questo stile pieno zeppo di errori che susciterebbe uno sguardo accigliatissimo, quasi sgomento da parte dei dotti grammatici che avessero ritrovato una serietà istituzionale. Ma io sono anticonformista e delle regole non so che farmene. Comunque, tanto per essere sinceri, io, a scuola, spiego la grammatica con le frasi che scrivo io, alcune tratte da questo libro, e spiego, con queste frasi, come non scrivere. Ma questo posso farlo io perché sto confermando delle regole attraverso il mio infrangerle – credo sia questo un solipsismo, altrimenti non saprei davvero cosa potrebbe essere. Ma appunto, il mio è un solipsismo e vabbene, ma se lo facessero altri questa cosa di confermare le regole di grammatica con le mie scritture, la cosa mi darebbe alquanto fastidio. Sarei pronto a dargli fuoco, perdiana!

Io, Eugenio Anodi – parte III

Vi dicevo che io, Eugenio Anodi, sono un insegnante, che io considero questo un lavoro che arriva dopo il fatto che io sia o mi senta un intellettuale, e che lo faccio perché sono costretto a guadagnare qualcosa, ché se fosse per me io me ne starei tutto il tempo a leggere, studiare, scrivere. Questo non lo avevo detto proprio così, ma non posso stare sempre a ripetermi, è giusto che di tanto in tanto io dica qualcosa in più. È una gran bella seccatura, comunque. Lo spazio delle cose che non so è sempre troppo grande, e quello che so non basta, e finché vi sarà uno spazio dato alle cose che devo fare ma che non farei, le cose che non so saranno sempre più grandi di quelle che dovrei sapere.

Io, è vero, sto a scuola, e vedo che i ragazzi non capiscono sempre che ci sono delle cose che dovrebbero sapere. A volte rimango a guardarli, con i loro capelli spettinati dalle cuffie, i loro guanti tagliati alle prime falangi delle dita, le loro sciarpe dimenticate sul banco, e penso che senso abbia ricordare loro che il mio nome è un quadrisillabo sdrucciolo. Io comunque ai miei ragazzi gli voglio bene, perché a loro pare stia simpatico, mentre di solito quando vado agli incontri letterari non sto mai simpatico a nessuno. I dotti mi guardano con aria severa, gli altri ospiti mi guardano con aria tonta o sospetta. Io quando vado a quegli incontri non parlo mai con nessuno al di fuori dello spazio riservato alle domande del pubblico, mentre con i miei ragazzi parlo di tutto, anche delle cose di cui non dovrei parlare.

Ma devo dire che ci parlo di tutto con i ragazzi perché con loro si può parlare liberamente. Sì, è vero, di alcune cose non si dovrebbe parlare, ma non perché siano stupidi, anzi: è solo che mancano loro alcune basi, come è ovvio, ché sono dei ragazzi di scuola. Ma almeno con loro si può parlare in libertà, mentre con i dotti e con gli altri si riesce a parlare solo se c’è un interesse sotto. Sì, è solo una questione di interessi. Non dico che non vi sia qualche onesto individuo che sia trasparente e sincero, ma io, da quello che vedo, non mi pare di averne mai incontrati negli appuntamenti culturali. Dubito che queste persone baderebbero soltanto al fatto che io indossi una camicia e una giacca, ma certamente, indossando io una camicia e una giacca, in primavera e in autunno, ho notato che mi guardano con aria meno tonta e più sospetta, ma anche un po’ curiosa, perché probabilmente si domandano se io non sia una persona che potrebbe tornare utile per qualche interesse, pure piccolo, con quella mia camicia e quella mia giacca. Magari potrei essere in qualche posizione di comando da qualche parte, potrei da qualche parte esprimere una promozione piuttosto che una bocciatura, cosa che posso fare tra l’altro, ma non mi è mai capitato di avere alunni che abbiano i genitori che sono dotti e con cui si potrebbe parlare nutrendo qualche minimo interesse.

Potrei dire lo stesso dei miei colleghi: non tanto relativamente all’area dell’interesse, che pure quello pare non manchi, ma piuttosto relativamente all’area del guardarmi con aria tonta più che sospettosa, o al guardarmi con aria sospettosa e tonta. Io pensavo che uno che è insegnante è prima di tutto un intellettuale che va agli incontri culturali, ma com’è che in tutti gli incontri culturali cui sono andato non ho mai visto un mio collega? Qualche lettore starà aggrottando le sopracciglia, soprattutto quelli che bevono whiskey, brandy, ecc. Vero, non sono stato del tutto sincero: mi è capitato di incontrare dei colleghi agli appuntamenti culturali, ma erano lì per qualche interesse. Interesse, se ve lo state chiedendo, non di carattere culturale, ma di altra natura. C’è chi ha un parente che parla, chi ha un corso obbligatorio da seguire. Ho provato a farlo notare, qualche volta: di solito, per evitare di risultare più antipatico di quel che non sono già – e lo capisco da quell’aria tonta e sospetta con cui mi si guarda spesso e volentieri – dico semplicemente che guarda, ho notato che quella libreria o quell’associazione o quell’università organizza l’incontro con il dotto tal dei tali, tu che fai, vieni? Mi si guarda con aria tonta e sospetta e mi si dice che purtroppo si hanno degli impegni improrogabili, che io invece che sono giovane dovrei approfittarne finché sono in tempo, perché si sa, con l’età che avanza, le incombenze, la famiglia, passa la voglia e non si hanno più le forze, le energie; ché si invecchia. Io li guardo: non so se con aria sospetta o antipatica, ma scommetto che ho un’aria antipatica.

No, non tutti i miei colleghi sono così: so già che qualche lettore, quelli che al brandy preferiscono patatine e popcorn, si staranno dicendo che già, è proprio così, questi docenti non fanno niente, lavorano solo diciotto ore a settimana, che considerando il giorno libero e la domenica sarebbero tre virgola sei ore al giorno, e che quindi cosa si millantano l’aumento dello stipendio che quel che hanno è già troppo. Non solo, ma a guardarli sembrano proprio degli sfigati. Non starò qui a difendere la mia categoria, ché io non pretendo di difendere neanche me stesso. Le affermazioni di questi lettori indignati, o sdegnati che forse è meglio, sono infatti del tutto aleatorie. Io, ad esempio, che sono un intellettuale ancor prima che un insegnante, credo nel mio lavoro di intellettuale non meno che in quello di insegnante, e quindi finisce che lavoro diciotto ore al giorno, sette giorni a settimana; perché se è vero che io sono un intellettuale insegnante e leggo, studio e scrivo più di tutti i miei studenti messi insieme, io nella giornata non faccio altro. Certo, devo fare la spesa, lavare e stendere i panni, ascoltare i discorsi lunghi della mia compagna, tutte cose che vanno ad ingrossare l’area delle cose che non so perché ci sono cose che devo fare, però, per il resto del tempo, cerco di leggere, studiare e scrivere il più possibile. È pur vero che nello stipendio da insegnante non rientra lo stipendio da intellettuale, quindi meriterei un aumento di stipendio? Forse sì, ma allora, magari, più di qualche collega sarebbe spinto a fare l’intellettuale oltre che l’insegnante, cosa che comunque non va a favore di un intellettuale, che uno è intellettuale sempre, a prescindere dallo stipendio.

Comunque, concordo sul fatto che i docenti appaiono degli sfigati, e questo, mi sorge il dubbio, dipende dal fatto che lo stipendio è sempre quello, anche se uno fa l’intellettuale, perché un intellettuale è uno che di solito pretende qualcosa di più dello stipendio di un insegnante, e quindi preferisce fare il dotto. Io sono un intellettuale docente non-dotto, perché sono anche un anticonformista e pigro, e spesso penso che io sono finito a fare il docente perché guardavo con aria tonta gli annunci che reclamavano curriculum e altre amenità. Io, tornando indietro, sarei andato a Los Angeles, ché lì non fa mai freddo ed è sempre primavera o autunno. Potrei farlo ancora adesso, volendo, ma quando guardo tutto l’iter che c’è da fare per prendere e organizzare e partire mi sorprendo a guardare il PC con aria tonta, mentre una volta giunto, già alla dogana, mi guarderebbero senz’altro con aria sospetta, e allora finisce che va bene così, che sto simpatico ai ragazzi e posso parlare con loro liberamente; come fa un intellettuale.

Io, Eugenio Anodi – parte II

Sì, forse perché io non vado agli incontri intellettuali vestito in giacca e cravatta, o almeno non sempre; soprattutto l’inverno. E non è perché io sia pigro o poco attento all’estetica. Io, anzi, io – io – ci tengo molto all’estetica: andrei sempre in giro in giacca e camicia, perché penso che mi stia bene questo stile della camicia e della giacca. Però io l’inverno ho freddo. Non sono abituato… io ho freddo, e non serve mettersi un cappotto adeguato, una sciarpa adeguata, un cappello adeguato.

Io intanto odio le sciarpe, a prescindere che siano adeguate o meno. Il fatto che uno usi la sciarpa implica il fatto che dopo un po’ la presa sul collo si allenti, e questo mi porta a far pendere la testa in avanti, e la mia compagna mi sgrida sempre dicendo che io devo tenere le spalle dritte. Sì, ma se io uso la sciarpa, le dico, e la sciarpa, dopo un po’ che è attorno al collo, si sposta, per i movimenti tipici della testa, soprattutto se come la mia è una testa pensante, sempre in movimento, io finisce che ho il collo scoperto, che tra l’altro non mi fa pensare bene.

Per non parlare del cappello, che, adeguato o no, è pur sempre una noia. Io non capisco, infatti – è vero – perché io sia il solo ad avere problemi con il cappello. Potrei dire lo stesso del casco, ma non uso gli scooter, ché ho troppo freddo. La gente indossa il cappello o il casco, ma quando li toglie non ha problemi con i capelli. Io invece sì, io ho i capelli che si arruffano tutti, e quindi, all’inizio, mi sono detto, ma non c’è problema, vai in bagno, c’è lo specchio, ti sistemi. Non credevo che la maggior parte dei bagni non avesse lo specchio, e non ci avevo mai fatto caso finché non ho iniziato ad avere questo problema. Allora, mi sono detto, lascia stare il gel, la cera, la lacca: porterai i prodotti con te e li userai una volta che sarai al caldo, al sicuro. Ma poi, dico, mi finisce che mi dimentico i prodotti, o che non so come e dove metterli, e soprattutto, quando mi dimentico i prodotti, poi sono spacciato, perché senza prodotto i capelli mi si appiattiscono sulla testa e io divento ancora più basso e più brutto di quanto non sia già. Però, insomma, non sono brutto, o almeno credo, ma mi sembrava un buon modo per completare la frase, per darle musicalità, ma anche per darmi più ragione. E comunque con quei capelli appiattiti sulla testa forse sì, un po’ brutto lo sono.

Non ho citato i guanti, prima: che siano adeguati o meno la musica non cambia. Il più delle volte i guanti sono ingombranti: occupano da soli entrambe le tasche della mia giacca. Per lo più li perdo ogni volta che vado in giro, perché non presto mai la dovuta attenzione a metterli in tasca, e poi, comunque, pure che li metta in tasca, sono ingombranti e quindi se ne cadono. Raramente li ritrovo, e quando accade lo riprendo da terra ed è ghiacciato, quindi la mia mano si ghiaccia ancor di più di quanto non lo sia già, e allora che me li porto e me li metto a fare questi guanti?

Il fatto che io poi non sia molto alto, ma neanche troppo basso, in fondo, mi crea problemi con i cappotti, perché non posso prendere i cappotti che vorrei, ovvero quelli che arrivano alle ginocchia, perché a vedermi da dietro mi fanno sembrare più basso di quanto non sia già. E poi, col fatto che io appunto non sono troppo alto, i giubbotti e le giacche mi gonfiano, mi imbottiscono, e a me sembra, a guardare il pavimento, che il pavimento sia più vicino del solito; sembra insomma che io sia più basso di quanto non sia già. È vero, con i cappotti io sembro un po’ più rotondo del normale.

Se c’è una cosa del freddo che invece mi gusta è la possibilità di indossare gli scarponi, gli stivali; ma non pensate che non abbia i miei problemi con gli stivali e gli scarponi. Di solito, infatti, i numeri disponibili partono sempre da un numero in più di quello di cui ho bisogno: io avrei bisogno di un 39 e invece tutti mi rispondono mi dispiace, ma abbiamo solo quelli dal 40 in su. A volte io indago, cerco, approfondisco, e magari noto che in realtà quel modello è disponibile a partire dal 39. Mi dico, ma scusi, allora, qui dice che partono dal 39 – che poi non è che mi dico: dico. E loro dicono a me che sono stati già venduti. Voi, insomma, lo capite da voi, ché siete lettori intelligenti, soprattutto quelli che sanno che io ho un nome sdrucciolo e quadrisillabo, ma lo capite che la cosa mi innervosisce parecchio, perché è mai possibile che io arrivi sempre secondo a comprare stivaletti e scarponcini del numero 39? Poi mi chiedo, ovvero chiedo: ma se sono tanto richiesti questi 39, mentre dal 40 in su sono sempre disponibili, perché non si producono più modelli 39 e meno dal 40 in su? Per non parlare dei numeri dal 49 in su, di cui si trovano modelli anche fuori produzione. Ma davvero esiste gente che indossa dal 49 in su, oppure li fanno per far vedere, per mostrare, per ostentare? O ancora: che per caso li fanno come forma di rispetto per persone svantaggiate da una misura di piede così grande?

Comunque, sì, c’è un’altra questione a riguardo, ma forse sto divagando, che ho già invaso il campo di un nuovo capoverso. Però non posso non dirla quest’altra cosa: io ho problemi con le scarpe, perché non è facile trovare modelli che mi piacciono. Ah, devo dire anche questo: io ho un 39 e mezzo, in realtà, quindi significa che a volte mi va bene il 39, altre il 40. Ma adesso. Perché prima io avevo il 40, ma deve essere successo che negli ultimi anni i numeri si siano rimpiccioliti e i piedi si siano ingranditi. O. Mi è capitato spesso di prendere il 40 e invece avrei dovuto prendere il 39; ma naturalmente, quando andavo a cambiarle, il 39 non c’era, mi dicevano che solo dal 40 in su. Ma io rispondo che il 40 ce l’ho già, e che appunto sono venuto per cambiarlo con un 39, al che loro si sentono in dovere di ribadire che no, il 39 non c’è, è finito, che non devo passare al periodo dei saldi, ché quei numeri vanno via subito. Ormai non lo chiedo neanche più di renderle indietro, ché non è possibile, ché ormai sono state vendute, ché ormai è stato fatto lo scontrino, ché ormai hanno lasciato il negozio. Ma sto divagando. La verità è che sono un insegnante, sono povero e devo comprare i modelli in saldo e se sei non troppo alto e non troppo basso e hai il 39 aderisci senza volerlo a un tipo umano cui il mercato non fa sconti.

Comunque, vi dicevo, che non è facile, per me, trovare modelli che mi piacciono, quindi quando mi piacciono i modelli e trovo il numero giusto io compro le scarpe e sono contento. Con il fatto che non mi piacciono molti modelli e che ho i gusti difficili, io ho poche paia di scarpe, che allora si consumano presto. Quindi, quando ho bisogno di scarpe nuove, vado negli stessi negozi e cerco di comprare le stesse scarpe, se non trovo modelli altrettanto convincenti, ma vi ho già detto che per me è molto difficile trovare modelli convincenti. Il commesso, normalmente, mi risponde che no, non sono disponibili, che sono fuori produzione, al che io dico, se le hanno vendute così tanto perché le mandano fuori produzione? Di solito non ricevo una risposta convincente, non più convincente di un’alzata di spalle e una levata di mani come le levano quelli che pregano il padre nostro – solo il padre nostro, non le altre preghiere, che vengono di solito impetrate con le mani giunte – lo so che la parola impetrata è un po’ fuori luogo qui, che appartiene a un linguaggio alto, aulico, che forse stona, ma io vi ho detto che sono un insegnante, che leggo molto, che studio troppo, che frequento un sacco di incontri culturali e quant’altro, e quindi ci tengo a dimostrarvi che so le mie cose, ogni tanto; prego i lettori intelligenti e svegli di non badare a queste mie facezie, ma voi lettori siete tanti, tutti diversi, e ogni tanto mi tocca aprire qualche digressione. Sì, è vero, non è che siete proprio tanti, e so già che voi, lettori sagaci e pretenziosi, avete sotto i baffi riso, meditando sul fatto che ah ah, voi lettori siete tanti! quando invece si contano sulla punta delle dita di una mano… – non necessariamente sulla punta, anche solo sulle dita – e magari avete interrotto la lettura per sorseggiare del whiskey, del bourbon, del brandy. Mi fate pena.

Comunque io non capirò mai perché, se ci sono delle scarpe che hanno successo e che vanno in tutto esaurito, non si ripropongano, ma vadano a finire nel dimenticatoio. È chiaro che se si fanno un sacco di scarpe belle e poi non le si produce più, non rimarrà che inventare e produrre scarpe sempre più brutte, che io non capisco perché ci sia sempre da cambiare idea e far avanzare il nuovo quando il vecchio andava già bene così.

Pensandoci bene io preferisco rimanere con questi dubbi, preferisco non conoscere la verità, ché sono certo la verità sarebbe noiosissima: immagino già il commesso che mi dà spiegazioni pedanti, come ma lei sa, signore, che con quel nome quadrisillabo sdrucciolo mi sembra così intelligente e fortunato, che un’azienda deve sempre aprirsi al nuovo, che i materiali cambiano, che le mode cambiano, che un’azienda ha anche una parte dedicata al design e all’innovazione, e che ce ne faremmo di quella parte se dovessimo stare sempre a produrre le stesse scarpe? Per carità, non dico che non abbia ragione, almeno in parte, ma a me resta sempre il problema che trovo delle scarpe e dei modelli di scarpe carini, e poi, una volta consumati, non potrò più indossarle di nuovo. Soprattutto preferisco i commessi ignoranti, ché non sopporterei spiegazioni pedanti sul fatto delle scarpe. A prescindere dalle scarpe, che sarebbe lo stesso per sciarpe, cappotti, guanti e via dicendo. Eziandio.

Avrei dovuto cedere al lusso del terzo Comunque in capoverso. Ma non io, Eugenio Anodi.

Comunque, insomma, io vado agli eventi culturali, d’inverno indosso maglioni e cappotti che mi fanno sembrare più basso, e per questo, e per colpa dei miei capelli spettinati dai cappelli, pur io intervenendo, i signori dotti non mi stanno a sentire e mi liquidano con fare indispettito. A volte, poi, mi capita di dire cose intelligenti, ma lì finisce che persisto, che continuo le mie domande e le mie osservazioni, che metto, nella mente degli altri, cose cui non hanno mai pensato, che finisco con l’individuare delle corrispondenze laddove non vi sono, che do meriti a persone e fatti che non li meritano, che vaneggio e speculo. Ma lì è colpa mia, del fatto che io vado a questi incontri perché sono stanco di studiare da solo, di leggere più di tutti i miei studenti insieme – questo forse sì, che i miei studenti non leggono molto – e quando vado a quegli incontri io voglio parlare, chiedere, confrontarmi. Del resto, ogni volta che si chiede alla platea se ci sono domande, mai nessuno fa delle domande. Oppure vengono fatte delle osservazioni, e davvero, credetemi, se fossi nei panni dei dotti oratori io davvero risponderei con astio, che ogni tanto si dicono delle baggianate o delle ovvietà da andarsene fuori di testa. Lì, di solito, non intervengo: prendo cappotto, guanti, sciarpe e cappelli e me ne vado. Al che tutti dovrebbero guardarmi con aria sorpresa, quasi sgomenta, ma per lo più non ci fanno neanche caso. Mi fanno pena.

continua…

Io, Eugenio Anodi – parte 1

Ecco, sì, sono Eugenio Anodi. Anodi con l’accento sulla a. È una parola sdrucciola: mi piace il termine sdrucciola. Piace anche ai miei studenti, però loro non si ricordano mai cosa significhi. Io me lo ricordo perché sono un insegnante e queste cose le devo sapere. Non posso non saperle. No, non insegno all’università, e tranquilli, lo vedo anche da qui che avete contratto il volto quasi in una smorfia, che vi state rilassando, ma anche un po’ indisponendo. Capita sempre così con gli insegnanti delle scuole superiori.

Quando mi presento non lo dico mai che il mio cognome è sdrucciolo, ma ogni tanto qualcuno mi fa un complimento e dice: suona bene questo cognome sdrucciolo, complimenti. Io da una parte sono contento perché mi fa piacere che qualcuno sappia cosa sia una parola sdrucciola e che se lo ricordi. Ma di solito chi lo nota è un mio collega, un altro docente, che però di solito insegna all’università, e poi che significa il complimento? Cioè, non è che abbia fatto chissà cosa per meritarmeli, non l’ho neanche scelto io il nome.

Ma ecco, dimenticavo di dirvi che tra coloro che mi fanno i complimenti per il mio nome ci sono quelli che dicono che è poetico – di solito sono colleghi, insegnanti delle scuole medie o medio-basse. Eugenio Anodi, dicono, è un settenario, ecco perché suona bene. Io non li capisco. Eugenio Anodi non è un settenario, è un quadrisillabo sdrucciolo, ma loro sono convinti che sia un settenario. Mi fanno, sì: E-u-ge-nio-a-no-di. Non considerano il fatto che le due vocali e-u non si staccano perché è un dittongo; è vero, e poi figurarsi se considerano il fatto che anche un verso può essere sdrucciolo. Se finisce con una parola sdrucciola anche un verso è sdrucciolo, ma non lo considerano. Non lo sanno, oppure non gliel’hanno spiegato.

Io glielo dico ai miei studenti, ma tanto loro poi dimenticano tutto. A che serve, prof, sapere che questo verso è sdrucciolo. Ma infatti, dico io, a che serve? Serve che se io mi presento e ti dico mi chiamo Eugenio Anodi tu non mi dici che è bello, che suona bene, che è un settenario e mi fai i complimenti che non mi merito e che quindi non so che farmene. A volte penso che se mi dicessero complimenti, hai un bel nome, è un quadrisillabo sdrucciolo, vero? sì, penso certe volte che se mi dicessero così potrei accettare di buon grado i complimenti; mi sentirei meglio sapendo che qualcuno lo capisce, che non sono solo. Davvero, mi sentirei meglio sapendo che qualcuno lo capisce? Non saprei, ché poi ci penso e oggettivamente non mi interessa, ché comunque non sono stato io a meritarmi i complimenti. Ai miei non interessa sapere che hanno fatto un bel lavoro con il mio nome che è un quadrisillabo sdrucciolo. A loro non interessa proprio che è una rarità, che non si trova facilmente. Del resto, volevano che diventassi un imprenditore e mi hanno chiamato così perché anche mio nonno si chiama così, Eugenio Anodi. Non mi chiedete se mio nonno lo sappia che è un quadrisillabo sdrucciolo perché se gliel’avessi detto avrebbe pensato che lo stessi prendendo in giro. Mio nonno è morto da un pezzo: un po’ mi è dispiaciuto di non averglielo mai detto.

Qualche lettore attento starà dicendo che in realtà, è vero, il mio nome suona bene, ma non è solo per il ritmo. È per la presenza di un’allitterazione, per la ripetizione della n, che dà l’illusione che il mio nome sia un palindromo. Vorrei poter fare i complimenti a questi lettori, ma ho timore che se la prendano a male, ché è ovvio, ché non c’è da meravigliarsi, e che io abbia inventato tutta questa storia solo per mostrare di saper scegliere dei nomi simpatici e curiosi, indulgendo nel gioco linguistico. Tra l’altro, ne sono sicuro, qualcuno azzarda pure, è vero, che la g di Eugenio e la d di Anodi abbiano una certa corrispondenza, che siano la vera forza della musicalità di questo quadrisillabo sdrucciolo. Io dico che queste persone dovrebbero vergognarsi e dovrebbero piantarla di fare certe considerazioni dotte, perché indulgono, speculano, vaneggiano. Cercano corrispondenze là dove non sono, danno meriti a persone e fatti che non li meritano, mettono, nella mente degli altri, cose cui non hanno mai pensato, involontarie.

Ma li capisco, perché queste cose succedono anche a me. Sì, perché io sono un insegnante, e considero la mia professione come un’espressione intellettuale più che un mestiere come un altro per guadagnare soldi che mi permettano di (soprav)vivere. Essendo che io sono un intellettuale, comunque, o mi considero tale, dunque, tendo a frequentare spesso circoli e incontri, convegni e appuntamenti memoriali, consegne di premi letterari e presentazioni di libri. Vado ovunque, sempre, anche se a volte uno non dovrebbe andare, perché già il fatto di andare non indica per forza o esclusivamente interesse e curiosità. Perché uno che va, infatti, implicitamente, senza volerlo magari, premia l’evento cui va, dà in un certo senso il suo appoggio, il suo assenso, e così si finisce per premiare e sostenere della gente che farebbe meglio a stare a casa propria, o soprattutto farebbe meglio a non scrivere nulla, pur stando a casa propria. Ci sono un sacco di cose che uno potrebbe fare, e onestamente: uno può cucinare, può darsi al giardinaggio, al bricolage, e chissà quante altre cose che non ho voglia di star qui a elencarle tutte. Uno può anche riesumare passioni vintage, come la filatelia o il collezionismo delle tessere telefoniche. Sono convinto, tra l’altro, che si troverebbe un sacco di materiale a buon prezzo, ché queste cose non interessano che agli stolti o ai passionari. Però va detto che non è detto che costoro, i quali facciano le cose onestamente, le facciano onestamente e bene, perché mi pare che la scrittura sia una cosa seria, anche se comunque, per esempio, a me che piace la buona cucina e mi ritengo una buona forchetta, se uno cucina, mettiamo, pure che sia, in modo onesto, io comunque direi che fa meglio a stare a casa propria e fare altro se costui non sa cucinare, ché io sono una buona forchetta e me ne rendo conto subito che costui non fa della buona cucina. Però, voglio dire, la scrittura è una cosa seria, come la cucina, ma non come molte altre cose di cui io sinceramente mi interesso poco e che quindi costoro potrebbero fare senza problemi.

Io comunque ve l’ho detto, vado a tutti gli incontri letterarî possibili. Ma non mi sta mai a sentire nessuno in quei convegni. Io qualcosa la so, insomma, sono un insegnante, qualcosa la saprò pure. Non sono il migliore insegnante del mondo, ma neppure il peggiore. Mi reputo un intellettuale: leggo molto, studio molto, senz’altro più dei miei studenti. Sì, leggo e studio e scrivo più dei miei studenti, intendo più di tutti i miei studenti messi insieme. Ma non solo quelli delle mie classi attuali. Intendo di tutti. Sì, è vero, proprio così, di tutti i miei studenti messi insieme. Ora, dopo questa, voi direte che sto esagerando, che non è possibile, che se ho cinquanta studenti, e ognuno di loro ha studiato mezzora al giorno, io non posso studiare più di loro. Sì, è vero, forse ho esagerato, però, in fondo, volevo solo dire che io studio tanto. Anzi, volevo dire, precisamente, che io studio leggo e scrivo troppo. È per questo, forse, che vado a tutti quegli incontri, ché a studiare sempre da soli prima o poi ci si stufa, e quindi io frequento quegli incontri per parlare con gli altri, per confrontarmi con dotti ed esperti, per sfogarmi. Ma non mi sta mai a sentire nessuno.

No, io non è che non dica cose serie o importanti. Sì, a volte dico delle cose un po’ campate in aria: a volte, ad esempio, individuo delle corrispondenze laddove non vi sono, do meriti a persone e fatti che non li meritano, fraintendo meccanismi letterari, costruisco cose laddove non esistono fondamenta, metto, nella mente degli altri, cose cui non hanno mai pensato; speculo, vaneggio. Vedo però che certe cose mi vengono sempre fatte notare con astio, con disappunto, con rabbia. Del resto, non dico sempre cose sbagliate, anzi, mi capita raramente di dire cose sbagliate. Sono convinto di avere un certo buon grado di intuizione, ma forse mi rispondono in quel modo perché io non vado vestito sempre in giacca e cravatta.

continua…

Sanremo 2024

Con la settantaquattresima edizione del Festival di Sanremo si chiude il periodo di regno della premiata ditta Amadeus & Fiorello. Possiamo quindi concederci il lusso di una sentenza lapidaria: tradizionalismo nella forma e innovazione del contenuto: competenze al servizio delle big company. E un interrogativo legittimo: si può chiedere di più al festival?

Copyright: Andrea Bracaglia

È il momento opportuno per chiudere, non solo per il confronto sofferto con l’edizione precedente: l’adesione al format che ha dato tanto successo al festival e al conduttore ha già quest’anno corso il rischio di trasformarsi in un’auto-parodia involontaria.

A fronte di un format con orientamenti tanto precisi e codificabili, la vittoria non premia certo la musica in sé, ma il pacchetto emotivo e formale in cui è confezionata. Il brano di Angelina Mango non è stato il migliore, mentre ben altre ambizioni poteva nutrire la sua storia – suggellata dalla reinterpretazione della canzone paterna durante la serata delle cover (lì sì che avrebbe meritato la vittoria. Detto en passant: questa storia tutta italiana dei figli d’arte si sta trasformando in un baronato che andrà prima o poi analizzato). Sulla vittoria di Angelina, pesa tra l’altro il vizio dello scudo anti-geolier: sospetto che rende ancor più dubbio il merito della sua impresa.

A proposito del rapper partenopeo, sebbene vi siano colleghi ben più apprezzabili nella scena in lingua – definiamola quantomeno campana, allora (su tutti Speranza, a mio modesto avviso), il Geolier nazionale ha fatto il suo cercando di giocare secondo le regole della competizione – che non impediscono di utilizzare anche più SIM per supportare un cantante, mi pare; né sanzionano, anzi semmai incentivano, la partecipazione di gente come D’Alessio e Luchè, quest’ultimo noto per la partecipazione alla colonna sonora di Gomorra. Può essere tutto discutibile, non credo addirittura di cattivo gusto, ma per una volta mi pare che il voto della plebe sia più credibile e sensato dell’élite del settore.

Le sue lacrime finali ci confermano quanto già sapevamo: Annalisa crede in quello che fa. Soprattutto in questo tempo, che è il suo tempo: ha già in mano il disco pop più bello e convincente di questi anni. Merita quindi di essere presa sul serio. E siamo finiti nel vortice non ha una canzone brutta: non è mai didascalico, propone una rilettura musicale convincente del grande pop anni ’80, ha il merito di risultare semplice ed efficace in tutti i suoi testi, sempre costellati in maniera intelligente di parole che permettono di riconoscere questo tempo dandone una rappresentazione e codificandolo a beneficio dei posteri. È chiaro, Annalisa è un’azienda: tutto è quindi brandizzato, con target e finalità artistiche precise, ciò che comporta compromessi ovvero vizietti di forma; ma niente di tutto ciò arriva a smentire un valore artistico che non teme, anzi ricerca, il confronto con eroine quali Donatella Rettore, Sabrina Salerno et similia. Sono convinto che tra vent’anni balleremo brani come Bellissima e Mon Amour (e Sinceramente) come balliamo ancora Il cobra non è un serpente e Boys boys boys. Perché Annalisa è lo zeitgeist. E ricordiamo che il disco ha almeno altri tre singoli da offrire (uno è già tale, Ragazza sola, ma Euforia e Indaco violento non sono da meno). Merce rara, oggi. Annalisa lavora bene, con intelligenza. È lei la vincitrice morale del festival. Solo cuori per lei.

A conforto di quanto dicevamo su, il premio Sergio Bardotti per il miglior testo a Fiorella Mannoia risulta addirittura scandaloso. L’abuso indiscriminato che nel testo si fa del predicato nominale non merita di passare per licenza poetica (condividono questa critica l’altra premiata ditta, Nek & Renga): l’immagine composita che la selva di nomi del predicato suggerisce – tutte nominazioni e aggettivazioni che, a prescindere dall’effettiva identità dell’io narrante, finiscono per copulare con la Mannoia stessa – non ha la minima credibilità e alimenta un mito, quello della sessantenne radical-chic di sinistra ormai vacuo, triste, deprimente, fuori tempo massimo – programmatica la scelta di presentarsi sul palco la prima sera scalza. Non dico che quel pubblico non meriti un’eroina in cui riconoscersi: è la vittoria del premio che non dobbiamo riconoscere; una legittimazione di cui non c’era né sentiamo alcun bisogno.

Italian singer Loredana Bertè performs on stage at the Ariston theatre during the 74rd Sanremo Italian Song Festival, Sanremo, Italy, 10 February 2024. The music festival will run from 06 to 10 February 2024. ANSA/ETTORE FERRARI

A proposito di personaggi prigionieri di sé, Loredana Berté torna ad aggiornarci sulla sua storia di eroina dall’anima rock (“l’energia rock di Loredana”, un trademark ormai: mica solo Annalisa è un’azienda?). Tuttavia, a differenza di Fiorella, Loredana qualcosa da dire ce l’ha. Non nella musica: nel testo. Versi come “Non ho bisogno di chi mi perdona io / faccio da sola, da sola / E sono pazza di me / Sì perché mi sono odiata abbastanza”, dice qualcosa di vero, cui possiamo credere senza riserve. E che dire di “Prima ti dicono basta sei pazza e poi / Poi ti fanno santa”? Sbattuta in faccia al pubblico di Sanremo che la incensa con standing ovation puntuali e gratuite è ancora più potente. E anche quando è più venale, non perde comunque efficacia: “Io cammino nella giungla / Con gli stivaletti a punta / E ballo sulle vipere”. Non è un caso che il brano sia andato bene: ce n’è abbastanza per trascendere il mero affetto o la brama di incensare.

Ho visto BigMama un paio di anni fa in apertura a un concerto di Massimo Pericolo. Appariva tutt’altro che anima fragile: il rapporto col suo corpo e la retorica dello shaming era sublimato attraverso ironia, autoironia, cazzimma e disincanto. Un modo credibile e moderno di affrontare la situazione. A Sanremo, invece, accetta di apparire – quantomeno sul palco – tutto il contrario: una delusione. E sono certo che abbia pagato questa opzione: non sempre funziona la tattica di fare la didascalia al contenuto lirico attraverso il pistolotto, l’ostentazione e la platealizzazione. Poteva essere l’eroina della lotta al sentimentalismo e all’autocommiserazione portando avanti un modello di rivalsa realmente interessante e produttivo: e invece…  

Del resto, non è la sola a indulgere in queste tecniche della ridondanza, tanto effimere quanto inefficaci. Cosa dire dei La Sad? Sarà anche vero che “il pubblico ha salvato [loro] la vita”, ma ho il sospetto che se così fosse davvero, non sarebbe facile sbandierarlo con tanta nonchalance; a forza di fare pose, una posa tutto. Ma forse è solo che rivendicare senza stile il proprio quarto d’ora di gloria è tipico dei giovani. Non è poi molto emo questa ostentazione della sofferenza, questa posa cristologica? Era da un po’ che non si vedevano gli emo, tra l’altro: meglio tardi che mai, Sanremo! – Sì, Emo, non parlatemi di punk ché l’unica cosa punk che c’era sul palco era una cresta fucsia. Sorvoliamo infine sulla forma che centrifuga la costellazione delle forme della trasgressione per tirare fuori non più di una maschera di carnevale elaborata da professionisti del make-up.

La politica di mettere al centro della propria musica i bambini non paga. Sì, sto parlando di Mr. Rain. Non so se ammirarla o gridare all’ignominia. Certo ci vuole coraggio, ma perché andare a ficcarsi in certi anfratti? Rispondiamo alla domanda con un’altra sentenza: il tema può ispirare una canzone, non una poetica. Così sembra pensare anche il popolo chiamato alle urne del festival. Ma attendiamo che il signor pioggia ci smentisca.

Italian singer Clara performs on stage at the Ariston theatre during the 74th Sanremo Italian Song Festival, in Sanremo, Italy, 06 February 2024. The music festival will run from 06 to 10 February 2024. ANSA/ETTORE FERRARI

Clara, dal canto suo, ha il merito di aver scritto la più bella canzone della kermesse con Annalisa, Mahmood e Ghali. Solo vedo il vizio di aver scopiazzato a Lazza, ma chi non ha scopiazzato qualcuno o qualcosa? Irama ha scopiazzato i Coldplay, Amoroso Diodato, Diodato i Beatles – o Peppino di Capri, sono indeciso – Gazzelle gli Oasis e così via, ché entriamo in un loop pericoloso. Insomma, più che vizio comune, trait d’union. Lo stesso Amadeus ha scopiazzato sé stesso.

Concludiamo col tema politico: ho preferito Ghali a Dargen – nessuno dei due ha rinunciato al pistolotto, ma a sto punto Ghali è più credibile. Tuttavia, ai due ho preferito Teresa Mannino, che ha spiegato tutto chiaramente in conferenza stampa col suo stile senza mezzi termini: siamo una colonia americana, di che cosa vi lamentate o stupite? Eh…

Non volevo, prima di lasciarvi, rinunciare al regalo della mia ultima sentenza, ispirata dai Bnkr44: del buon cringe di provincia. Potevano rinunciare all’ennesimo pistolotto? No. Senza contare che sono di Empoli, non di Ferrandina o Afragola.

Questo è quanto. Finisce così il regno di Amadeus. A sancirne il successo ci sono i record di ascolti e interazioni o più semplicemente il fatto che sia riuscito a strapparmi più di un’ora della mia vita senza lasciare l’ombra del rimorso. Vedremo cosa sapranno fare gli altri. Basterebbe non rovinare quanto fatto finora. Non sarà facile, ma noi non sottovalutiamo nessuno.

Un racconto di Natale

– Vi prego, signora, calmatevi e diteci con chiarezza e particolare attenzione ai dettagli cosa è successo.

– Mi perdoni, maresciallo, è la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere.

– Siamo qui apposta. Ora è tutto finito, non avete più nulla da temere.

– Da dove cominciare? Eravamo a letto. Avevamo trascorso una serata perfetta: i bambini erano felici e noi con loro. Io e mio marito siamo rimasti svegli per un po’ a leggere e poi ci siamo addormentati. A un certo punto sentiamo uno strano rumore: come di qualcuno che segasse del legno, o che raschiasse un muro di mattoni. Abbiamo pensato che fosse il gatto, ma Bizet era steso ai piedi del letto.

– Da dove proveniva questo rumore?

– Dalla cucina.

– Era continuo?

– No, lo sentivamo per qualche secondo e poi spariva. Ho guardato mio marito perché mi sono fatta inquieta: lui si è levato dal letto. Si è accostato alla porta della camera per sentire meglio. Il rumore era sempre lo stesso: spariva e appariva, però sembrava anche crescere, pian piano avvicinarsi fino a farsi nitido. Era angosciante: non ho più resistito! Ho detto a mio marito di chiamare i carabinieri; lui mi ha detto di aspettare. Poteva essere un altro gatto, o addirittura un topo. Non ne abbiamo mai visti, qui, ma non si può mai sapere con questi animaletti.

– Digli del colpo di tosse!

– Un attimo! Ci sto arrivando! Come diceva mio marito, abbiamo sentito a un tratto uno starnuto. Chiaro e inequivocabile. Poi colpi di tosse. Una tosse grassa, affannosa, tipica degli anziani. Terrorizzata, sono corsa dai bambini. Mio marito ha preso la mazza da baseball e mi ha coperto le spalle. I bambini dormivano tranquilli: non avevano sentito nulla. La tosse si è attenuata, è sparita, e il rumore è ripreso. Era vicinissimo.

– Rumore di cosa?

– Non saprei, come di scarpe che strisciano sull’asfalto.

– Cosa avete fatto?

– Mio marito non ha avuto più dubbi. C’era qualcuno in casa. Me l’ha detto e mi ha chiesto di prendere il telefono e passarglielo. Componeva il numero quando abbiamo sentito un tonfo cupo e urla di dolore. Il ladro doveva essere caduto e si era fatto male. Ha presto preso a piagnucolare e chiedere aiuto. Io ho urlato dal terrore e mio marito mi ha afferrato la bocca con la mano intimandomi il silenzio. Mi sono spaventata ancor di più, è stato terribile.

– E cos’ha fatto il ladro? Ha sentito il vostro grido?

– Sì, perché ci ha chiesto con ancora più convinzione di aiutarlo, che si era fatto male, e di avere pietà per lui, per un povero vecchio. Mi sono intenerita perché erano urla di dolore, ma mio marito ha detto: “Non farti ingannare, sta’ buona!”. Sono scoppiata in lacrime.

– Vi siete fatti un’idea, dalla voce, di chi potesse essere il ladro?

– Un meridionale!

– Caro, calmati! Non so, maresciallo: era certamente una voce maschile e avrei detto quella di un vecchio, sebbene fosse squillante e un po’ rauca. In effetti, alle grida di aiuto seguivano imprecazioni in dialetto.

– Che dialetto?

– Non saprei…

– Barese!

– Che tipo di imprecazioni?

– Non so, maresciallo, non saprei ripeterle. Le diceva ad alta voce, ma come tra sé, come fosse abituato a parlare così.

– Guardi, maresciallo, stia a sentire me: il trombetta, lì, diceva cose senza senso tipiche dei meridionali, ché gli ho sentito dire chiaramente tremone o qualcosa del genere barbaro, lì. Al che ho capito che era un meridionale. Di Bari, per essere precisi. Sa, ho un cliente da quelle parti: inutile dirle che quell’africano qui ha cercato di defraudarmi. Proprio come voleva fare quest’altro barbagianni, evidentemente.

– Attenetevi ai fatti, signore, ci interessano solo i fatti.

– E non sono fatti, questi?

– Manlio! Ma insomma!

– Riprendete pure, signora.

– Lo scusi, maresciallo. Continuo. Ho composto il numero e ho parlato con il vostro collega spiegandogli velocemente quanto accaduto. Quando ho messo giù, mio marito non era più sulla porta. Era in cucina. Ho sentito un altro tonfo e nuove urla di dolore, con imprecazioni sempre più forti, sempre… sempre in dialetto. Sono corsa dai bambini, che per fortuna dormivano ancora, e poi mi sono affacciata all’uscio della cucina.

– Un attimo: che cos’era quel tonfo?

– Non saprei, lì per lì ho pensato che fosse mio marito che…

– Nulla, non era nulla quel tonfo lì, signor maresciallo. Era il trombetta, lì… come dire… quando mi ha visto comparire sulla porta con la mia mazza ha cercato di fuggire, ecco… ma è scivolato ancora, il beccaccia, e ha battuto la testa sul camino! È vero!

– Questo sarà un medico a stabilirlo, signore. Voi limitatevi a riportarci i fatti e ricordatevi che questa testimonianza ha valore legale.

– Ah, è così? Quindi ora il criminale sarei io? Mi dica, maresciallo, sono io ad aver fatto irruzione in una proprietà altrui? È così che funziona? Cosa vuol fare, vuole ammanettarmi? Cosa siete, carabinieri o comunisti voialtri?

– Calmatevi, signore. Voi, signora, continuate.

– Manlio, per piacere! Mio marito teneva la mazza puntata in alto contro il ladro, maresciallo, ma non l’ha mai colpito, glielo giuro!

– Legittima difesa si chiama questa, caro il mio maresciallo, oppure io ora non so nulla, ho dimenticato tutto?

– Sarà un giudice a stabilirlo, signore. E vi consiglio di calare la voce: ricordatevi che parlate a un pubblico ufficiale.

– Sì, certo, pubblico ufficiale, siete tutti uguali voialtri…

– Manlio, basta, vai di là. Stai esagerando. Me ne occupo io di questa cosa…

– Sì, vado, ma stai bene attenta che non c’è da fidarsi mica di quella gente qua…

– Basta, ho detto, vai di là! Lo perdoni, maresciallo, è un marito e un padre esemplare ma purtroppo ha… insomma, è un po’ ottuso, politicamente parlando…

– Non vi preoccupate, capisco. Continuate pure.

– Nulla, questo anziano continuava a piagnucolare. A vederlo ho provato una gran pena. Era evidentemente ubriaco e aveva un aspetto trasandato. Una barba lunga e folta, tutta bianca, macchiata dalla fuliggine. Degli occhiali d’oro, anche se non riuscivo a capire come potesse permetterseli.

Li avrà rubati, no?

– Basta, Manlio! Guarda che ti sentiamo! Pensa ai bambini!

– Continuate.

– Mio marito non ha tutti i torti, in ogni caso: anche io ho pensato la stessa cosa. Mi ha colpito poi il vestito: un vestito rosso rifinito ai margini con del pelo bianca. Bottoni neri in pendant con degli stivaloni neri che a mio gusto sembravano spropositati e inadatti al nostro clima. Per carità, non dico che faccia caldo, ma non siamo certo in Scandinavia.

– Attenetevi ai fatti, signora. Stivaloni neri, dicevate. Continuate.

– Certo, mi scusi. Però, guardandolo sembrava davvero un uomo che avesse rubato la prima cosa che trovata in giro e fosse scappato. Avete già interrogato l’uomo?

– Lo stanno interrogando i miei colleghi in centrale. Voi invece avete chiesto qualcosa all’uomo?

– Mio marito, certo… gli diceva…

– Gli diceva…?

– Nulla, gli chiedeva cosa volesse da noi e perché era entrato in casa.

– Sicura? E l’uomo?

– L’uomo diceva di essere entrato per lasciare dei regali ai bambini.

– Ai bambini?

– Sì, ai bambini. Una cosa disgustosa, non trova?

– Continuate.

– Diceva anche di avere le prove. Diceva che il suo sacco con i regali si era incastrato nel camino, che avremmo fatto bene a controllare.

– È il pacco che giace lì?

– Sì, deve essere la sua refurtiva. Chissà dove li avrà rubati… avete avuto qualche denuncia da parte di negozi di giocattoli?

– No, signora, e in ogni caso non sarei autorizzato a dirglielo.

– Certo, mi perdoni. Non vorrei sembrare pettegola, maresciallo, è solo che non capisco davvero cosa cercasse quel vecchio nel nostro camino.

– Siamo qui per scoprirlo, signora.

Era ubriaco!

– Vero, mio marito ha ragione. Il vecchio era ubriaco: puzzava di acquavite e farfugliava parole strane, sempre in quel suo dialetto barese.

– Capisco. Sta bene, mi sembra che abbiamo tutti gli elementi. Un’ultima cosa: ci sono stati dei danni? Oppure delle cose rubate?

– Non mi pare, maresciallo. Non abbiamo avuto il tempo di controllare tutto. In caso, le faremo sapere.  

Non ha fatto in tempo, il trombetta.

– Manlio, ti prego! Solo mi viene in mente, maresciallo, il camino. Ci sarà da capire se non vi siano stati danni.

– Se non c’è altro, togliamo il disturbo. Qualunque altro dettaglio vi venga in mente, questo è il mio numero. Cercate di trascorrere un buon Natale: non avete più nulla di cui preoccuparvi.

– Grazie, maresciallo, buon Natale anche a voi.

– Salutate vostro marito.

– Certo, non mancherò.

Vada via, terun!

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Svizzero? No… Reich!

Direi che stiamo prendendo un po’ tutti sottogamba il fatto che quel gentiluomo di Hitler non abbia invaso la Svizzera. Non se ne parla da qualche tempo e a dirla tutta non si è mai aperta una seria discussione sulla questione.

La spiegazione è ancora e sempre la stessa: la Svizzera era neutrale! Beh, anche il Belgio era neutrale, ma è stato piallato a dovere. Come se non fosse la Svizzera – Stato che tra l’altro non è, guarda caso.

Altri, più ironicamente, fanno notare che Eva Braun era ghiotta di cioccolato svizzero, unico sollievo ai suoi affanni da amante del kaiser, il quale non voleva rischiare di compromettere il tessuto produttivo dei maîtres chocolatiers elvetici per non avere problemi nel talamo. Che poi… ironicamente un corno! Il tentativo di suicidio della Braun, che gli psicologi à la page, cioè quelli del cantone francese, interpretano come un banalissimo tentativo di attirare l’attenzione del Fuhrer, coincide tuttavia con la grande crisi del cioccolato svizzero del ’35. Non sapendo che fare, Hitler la trasferì in una villetta di un quartiere residenziale a Monaco con Negus e Stasi, i suoi due terrier. Sapete cosa trovò Eva in casa? Una fontana di cioccolato.

A parte gli scherzi, mi stupisce il fatto che nessuno prenda sul serio questa faccenda. Possibile che con tutti gli storici che abbiamo nessuno abbia pensato di fare un video di questi molto à la page, come dicono nel cantone francese della Svizzera, divertente e avvincente in cui spieghi a tutti noi le ragioni per cui Hitler, e come lui molti altri prima, non abbia invaso la Svizzera? Noto per contro che ci sono molti video in cui si racconta con entusiasmo divertito e avvincente come gli antichi Svizzeri abbiano nobilmente creato il loro stato della Svizzera, di cui si ricorda sempre, con valore addirittura proverbiale, l’alto valore della neutralità. Anche qui: ma da quando la neutralità è un valore? Cosa ne è stato del sanza infamia e sanza lodo?Mi pare che ci si sia fermati al non ragioniam di loro ma guarda e passa, tra l’altro con una superficialità che vanifica a propria volta l’ipotesi del mero fraintendimento.

Non vorrei lanciare nuove teorie del complotto – anche se devo ammettere che la cosa non mi dispiacerebbe: il mio anticonformismo indulge talvolta nel desiderio tutto languido e vagamente giuggioloso di sentirsi parte dello Zeitgeist. Tuttavia, la situazione non è semplice: temo che questo mio interesse per la Svizzera possa intorbidare acque che non amano intorbidarsi, perché degli Svizzeri sappiamo poco, ma sicuramente conosciamo il loro rancoroso disprezzo per il torbido. Un disprezzo anche qui proverbiale. In una parola, temo che possa infastidire qualcuno: in particolare i proverbialissimi Svizzeri. Gli Svizzeri delle banche, precisamente. O gli avvocati degli Svizzeri, sempre pronti a ronzare intorno alla preda come mosche, com’è tipico dei mercenari (è noto, infatti, che gli Svizzeri non si sporcano le mani con professioni ignobili come quelle dell’avvocatura, che appaltano a immigrati introdotti ad hoc).

E allora a chi chiedere conto di questa storia della mancata invasione? Come fidarsi? Anche il più autorevole degli storici non avrebbe vita facile: nessuno ha voglia di sparire per sempre, chiuso nel caveau di una banca svizzera insieme a migliaia di lingotti d’oro senza poterne spenderne mezzo.

L’unica cosa che mi viene in mente è chiedere a ChatGpt – l’oracolo del ventunesimo secolo©. Domanda diretta: ehi bella, sai dirmi perché cazzo Hitler non ha invaso quel cesso di posto che tutti chiamano senza vergogna Svizzera come fosse un merito? ChatGpt non ha battuto ciglio, come le donne di una volta. Anzi, a dirla tutta mi è parso che fosse intimamente lusingata. ChatGpt mi ha proposto con la sua ormai classica disinvoltura la seguente risposta articolata:

  1. Il deterrente difensivo: la Svizzera aveva un sistema difensivo molto ben organizzato e un esercito ben addestrato. Ahah!
  2. La neutralità svizzera: ça va sans dire, aggiungo io, come fossi un qualunque psicologo ginevrino.
  3. Benefici economici: la Svizzera, dice ancora quella signorina incantevole un po’ saccente di ChatGpt, svolgeva un ruolo importante nel sistema finanziario internazionale, e le banche svizzere erano considerate sicure per il deposito di capitali. Un’invasione avrebbe potuto danneggiare irreparabilmente questa reputazione e disturbare i flussi finanziari. So funny!
  4. Priorità strategiche: durante la Seconda Guerra Mondiale, Hitler aveva obiettivi più prioritari, come l’occupazione dell’Europa occidentale, la lotta contro l’Unione Sovietica e il controllo di risorse strategiche. L’invadere la Svizzera non era una priorità immediata rispetto ad altri obiettivi strategici. “Più prioritari”? Chissà cosa direbbe lo psicologo ginevrino di questo lapsus. Comunque, ahahah!
  5. Consapevolezza dei costi: Hitler era consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato nell’invadere la Svizzera, sia a livello di terreno montuoso difficile da attraversare che della determinazione del popolo svizzero a difendere la propria neutralità. Uuuuuh, mi fa morire!

Non so, che mi dite? Io lo trovo un pezzo molto divertente, degno di un Woody Allen.

Che la Svizzera potesse avere un sistema difensivo ben organizzato e un esercito ben addestrato, possiamo pure crederlo. Tuttavia, dall’altra parte avevamo la Wermacht. Non so.

Simpaticissima, direi quasi tenera, la considerazione sulla determinazione del popolo svizzero a difendere la propria neutralità. Non capisco perché gli Svizzeri sì e i Belgi no.

Non meno divertente la riflessione sulle priorità strategiche: ricordo un video di History Channel in cui la bandiera nazista sventolava fiera su buona parte dell’Europa, tranne che sulla Svizzera, sinistramente tinta del rosso e del bianco della croce. Ora, chiunque abbia un briciolo di amor proprio non esiterebbe a sentire quella macchia come un’urgenza. Figuriamoci a Hitler che crisi nevrotiche potevano venirgli al solo pensiero.

C’è poi la chiave economica – e vorrei vedere –: per la quale, l’invasione avrebbe potuto danneggiare la reputazione della Svizzera in termini di affidabilità bancaria. Come se questo fosse un ostacolo e non una motivazione.

Tutto ciò mi sembra abbastanza per concederci l’infioratura di una citazione colta: c’è del marcio in iSvizzera.

La verità è una sola, e neanche ChatGpt ha intenzione di riportarla. Hitler non aveva alcun bisogno di invadere la Svizzera. La Svizzera era già parte integrante del Reich. La Svizzera era già moralmente del Reich. Solo con questa premessa posso dare credito tutte le spiegazioni surriportate. Naturalmente, anche un Rolex rotto segna l’ora esatta due volte al giorno.

Andare in Svizzera oggi ci permette di vivere l’ucronia della vittoria del nazismo. Il terzo Reich del ventunesimo secolo ha le fattezze della Svizzera: se dovessi riassumere il concetto in una sentenza parlerei di nazionalistica radicalizzazione della sobrietà. Gente perbene, educata, solidale, tranquilla, che vive come se tutto ciò fosse normale. Gente ricca che la domenica va a sciare: che fa sport non perché sia divertente, ma perché è sano. Che ha un lavoro ben retribuito, poco tassato. Un paese totalitario nell’animo, giacché interamente posseduto e gestito dal denaro. Un paese in cui la legge è scritta in cifre. Un paese che chiaramente rivendica una propria superiorità morale. Un paese ricco di ricchi.

In conclusione, Hitler non ha invaso la Svizzera perché non c’era nulla da invadere né da annettere: la Svizzera era naturalmente del Reich. Inoltre, piace a tutti farsi di tanto in tanto una vacanza all’estero. Anche a Hitler.

Storie d’amore

Sapete, ho avuto una storia d’amore, recentemente. Non molto tempo dopo un’altra storia che mi aveva sfiancato; per questo mi ero ripromesso di viverla con una certa tranquillità, senza grosse aspettative, vivendo ogni momento come fosse l’ultimo. Godendo languidamente di ogni istante con la stessa attitudine con cui si osserva la prima foglia grigia staccarsi dall’albero, quando ci si lascia andare a pensieri sulla caducità della vita, sul tempo tiranno, sulla natura matrigna che non rende poi quel che promette allora, ecc. Che ci volete fare? È il mio lato femminile.

Questo atteggiamento è per me soprattutto una questione di maturità. Diciamoci la verità: può un individuo abdicare alla sua vita per affidarla completamente al più instabile degli elementi naturali: l’amore? Può passare dalla felicità alla disperazione e dalla disperazione alla felicità nel giro di qualche secondo e più volte al giorno per più giorni, per mesi? Può d’un tratto ritrovarsi a fare i conti con la noia di una vita diversa, irrimediabilmente diversa, pensando ogni momento che solo un giorno prima, un minuto prima, era una persona tranquilla, per bene, mentre annaspa poi in un mondo cupo, feroce, infernale?

Sì, se è un ingenuo idealista che vuole con l’amore riscattare la sua condizione di essere vivente questo mondo, misterioso e indifferente. Un discorso cui tuttavia riconosciamo da sempre una nobiltà meritoria solo se si è giovani. Quando si è meno giovani, quando non si è più giovani, quando nessuno più ci riconosce come giovani, sentire così e così agire non porta che alla miseria vera: si finisce per essere ridicoli. Allora la maturità consisterà giusto nel riuscire finalmente a dominare la forza prorompente delle passioni: cioè a mettere in riga il fanciullino che è in noi, senza temere di ricorrere a teorie pedagogiche ormai datate, se necessario. Insomma: cosa crede, il fanciullino? Che può starsene tutta la vita a campare alle nostre spalle percorrendo senza sosta il pozzo fondo dei suoi vizi? È ora di decidere cosa fare della tua vita, fanciullino: se non hai voglia di studiare, cercati un lavoro! Cosa dici? Non vuoi lavorare? La pacchia è finita, caro fanciullino. Non puoi stare tutta la vita sdraiato sul divano a giocare alla playstation. Esci di casa, cercati un lavoro e soprattutto esci da questa stanza che devo sistemarla, visto che per te è un lavoro troppo faticoso. Basta, maledetto fanciullino. Sciò, via!

Sono molto contento di questa mia maturità. Non avrei pensato di farcela, devo dire la verità: e invece eccomi qua, a trascorrere le mie giornate pensando a lei. Cui ho associato innanzitutto un’immagine, un’emoticon che le facesse onore: una luna; ragion per cui non posso fare a meno di pensare a lei ogni sera, quando la luna si affaccia dai monti intorno. Sere e notti che trascorro dapprima bevendo quantità cospicue di birra per distrarmi, dimenticare, senza mancare di mischiarle con robaccia tipo gin e vodka, per poi, rannicchiato nel mio lettuccio, piangere tutte le lacrime di birra innaffiata che ho. Quando finalmente prendo sonno, sono contento di svegliarmi in preda a sogni in cui io e la mia luna siamo insieme, facciamo l’amore (anche con altri, anche se ama solo me), ci diciamo parole carine, utilizzando i nostri nomi d’amore, o meglio io utilizzando il nome d’amore che le ho dato – cosa cui lei non ha creduto di dover corrispondere; per poi tornare a fare l’amore, che è piuttosto sesso, prima di ricominciare a piangere e riprendere sonno e riprendere a sognare e riprendere a svegliarsi.

Al mattino, solo un caffè, perché non mangio. Non ho appetito. Spizzico qualcosa, ma mai al mattino. Di solito a sera, quando bevo, perché dimentico di non avere fame. Preso il caffè, accendo una sigaretta e prendo atto del mio mal di stomaco. Sarà il caffè… non è il caffè. Così come non è il caffè la ragione delle vampate di calore o dei gelidi tremori che mi prendono di tanto in tanto durante la giornata, per lo più trascorsa su WhatsApp a fissare il suo nome, la semiluna che lo decora, la sua immagine, le ultime parole della nostra chat, in attesa che compaia la gloriosa scritta sta scrivendo… – ah! Mai parole più dolci furono inventate dai poeti della Silicon Valley. In contrappunto a queste occupazioni, salto di tanto in tanto su Instagram, dove prendo atto delle sue tracce: è connessa? Si è appena disconnessa? È disconnessa da ore, da giorni? È attiva oggi, era attiva ieri? Ha pubblicato una storia? Ha pubblicato una storia. Mi riguarda? Non mi riguarda: meglio, mi riguarda ma non riguarda me. Ha pubblicato una foto, un reel? No, non ha pubblicato niente, ha le solite sue quattro immagini. Ond’evitare di non tralasciare alcun dettaglio, me le riguardo, tanto per non soffrire. Già che ci sono mi vedo pure le storie in evidenza. È un fiore, penso, e non capisco perché non mi ami, ora e in eterno.

Mi affaccio su Telegram: non si sa mai che abbia deciso di scaricare l’app. Lo so che l’app stessa, davanti a quest’eventualità, mi avrebbe avvisato, come fa sempre, con una notifica ad hoc, ma io, dall’alto della mia maturità, non credo di dover tralasciare alcun dettaglio. Del resto, è un gesto che eseguisco con una certa affettazione, tipica dell’uomo maturo.

In tutto ciò dovrei lavorare, ma chi ne ha voglia? Peggio, me ne sono dimenticato. Mi sono dato malato: naturalmente solo quando le mie osservazioni e i miei studi sono stati interrotti dalla telefonata del capo. Che hai? Che ho? Ho la febbre. Febbre d’amore. Non gliel’ho detto: l’ho solo pensato ad alta voce.

A questo punto metto in carica il telefono, attivo da ore, da giorni. E però c’è un fatto che più di altri mi infonde fiducia nel mio percorso di emancipazione dall’amore giovanile, femminile, ingenuo e ridicolo, nobile. Il fatto che queste attività, a un certo punto, mi annoiano. Tanto che ho l’ardire di passare su Facebook, rete che la mia semiluna non frequenta. Non dura che qualche minuto, intendiamoci: torno presto su WhatsApp.

In questi percorsi di recupero dalle dipendenze tossiche, però, anche queste piccole cose rappresentano passi da tenere in considerazione: da non sottovalutare, da cui ripartire. Non è che si può sempre fare come per l’altra storia, quella di prima, quando ben lontano dalla maturità di oggi avevo atteso la mia amata sotto casa, facendole un’imboscata d’amore. Me lo ricordo: ero nervoso. Avevo le mani sudate, facevo avanti e indietro nel suo pianerottolo. Sapevo che era la mia ultima chance: se avesse accettato, sarei stato libero; se avesse rifiutato, beh… Citofono: alla mia richiesta, rispondeva che non aveva alcuna intenzione di scendere. Ho messo in campo le armi tipiche degli amanti disperati: pietà e pena.  Intenerita, mi ha detto di aspettarla. È scesa in vestaglia e ciabatte: un amore. Mi sono avvicinato e le ho messo la mano sulla bocca per impedirle di gridare, le ho preso le braccia immobilizzandole dietro la schiena e dopo averla legata e imbavagliata l’ho trascinata in macchina e sbattuta nel portabagagli – per carità, avrei potuto accomodarla tranquillamente dietro i sedili posteriori, non sarebbe cambiato nulla; ma non avevo allora tutta la maturità che ho oggi. L’ho condotta in un luogo appartato, fuori città, e tiratala fuori dall’auto l’ho gettata a terra, le ho strappato i vestiti, l’ho violentata in preda a un sentimento di furore ispirato dal risentimento e dalla vendetta che non potrei che chiamare amore: era bellissima. In preda a quest’amore, strappatole di dosso il bavaglio, le ho gettato dell’acido sul volto a sfigurarla per sempre, gesto d’amore eterno; infine, imbevutala di benzina, le ho dato fuoco. Mentre la vedevo bruciare ho pensato: è mia, mia per sempre. E sono scoppiato in lacrime. Lacrime d’amore.

Femminicidio, dicono in TV. Certo che è un femminicidio, ma non capisco tutta questa negatività: non è il femminicidio il più alto dei gesti d’amore? Di che parliamo? Guardando il TG, mi sono detto che certi amori sono davvero per sempre. Che certi amori sono rari, non sono per tutte. Bisogna custodirli gelosamente. Insomma: a un certo punto bisogna crescere, fare l’uomo maturo, accettare che la propria donna interiore sfiorisca. E io, modestamente, lo sto facendo.

Il nomignolo d’amore, la sua lunicina, la sua immaginetta, le paroline nostre… sta scrivendo… sta scrivendo? Non sta scrivendo. Non sta scrivendo, la stronzaccia…

Un’idea brillante

Ho avuto un’idea brillante. Sapete com’è, no? Uno sta ore: giorni, a scervellarsi, e in capo a qualche minuto, magari mentre è nel traffico o prende il primo caffè del mattino, soprattutto, realizza che un’idea, magari non geniale, ma brillante sì, viene ad affacciarsi alla propria coscienza, come una vecchia a una finestrina. E questo tipo di idee, soprattutto quelle mattutine, non sono di quelle idee che invece uno partorisce quando è drogato. Sapete: quando uno fuma marijuana, per esempio. Quando ci si convince di avere un’idea non meno che geniale, anzi, spesso e volentieri rivoluzionaria. O semplicemente, scrive un pezzo che rivelerà ai propri simili, ma soprattutto ai posteri, qualche tipo di verità inossidabile, tipo la morte. No. Sento che questa è un’idea quantomeno intelligente. Non voglio dire né geniale né rivoluzionaria, perché io sulle cose tendo a conservare un basso profilo, che non si sbaglia mai.

Mi capita spesso di avere idee, al caffè mattutino, anche se non sempre di questo calibro. A dire il vero quasi mai di questo calibro. Più spesso sono semplici idee che mi permettono di orientare la giornata, il che è fondamentale per una vita sana. Come si dice: mens sana in corpore sano. E il fatto che queste idee giungano al mattino, quando ancora non si è completamente svegli, ma neanche totalmente dormienti, mi permette di gestire la transizione con una certa innocenza. Evitare la vertigine del vuoto, condizionare negativamente la giornata. Se infatti ci si sveglia e non si sa cosa fare, si avverte immediatamente il significato più profondo della vita e dell’esistenza. E io non voglio avere a che farne. Mi dicono c’è gente, lì fuori, che passa tutta la vita a cercare il significato della propria esistenza, e con la sua, quella di tutti, non rendendosi conto, probabilmente, che proprio in quel momento sta dando un senso alla propria esistenza. E non un senso, ma quel senso. Insomma, si lancia in una mise en abyme che sinceramente, personalmente, non posso tollerare: soprattutto di primo mattino, quando sono impegnato a figurarmi il primo caffè della giornata.

L’importante, di mattina, è non pensare. Uno dovrebbe lasciare la mente libera di vagare nel suo stato di deriva quanto più possibile. L’unico esercizio da fare, al mattino, è non fare esercizi: né fisici né mentali. Bisogna ridursi a sonnambulo, a zombie. Compiere il tragitto dal letto alla cucina dimenticando di esistere. Fare il caffè sovrappensiero, non pensando di pensare. Posare la macchinetta sul gas (o, qui a Milano, sull’induzione) ed evitare assolutamente, a qualunque costo, che l’accensione del gas o dell’induzione interferisca con la deriva mentale. Dimenticare di poter udire: udire senza sapere di udire. Avviato il gas, avviata l’induzione, poggiarsi al banco della cucina senza sapere di farlo. Dimenticarsene ancor prima di memorizzarlo. Pensare ingenuamente di non pensare, preesistere a sé stessi, lasciare che la barchetta della mente figuri gli sfondi e le acque in cui muoversi. Vedrete che così facendo avrete idee curiose e colorate. Vincenti, soprattutto. Magari non geniali né rivoluzionarie, ché i miracoli non esistono. Ma prima o poi, qualche idea brillante arriverà. Statistica, se non altro.

E non bisogna neanche farsi prendere dal panico. Mi ripeto, ma scegliendo un’altra immagine: bisogna stare come chi danza sul filo a centinaia di metri di altezza, nella tranquilla consapevolezza della rete che fluttua al di sotto, e non eccitarsi per qualche curiosa scena cui assistiamo da lì su, centinaia di metri in basso, dove i nostri simili e i nostri posteri non possono che apparirci come formiche. E non dobbiamo assolutamente lasciare che la nostra simpatia, la nostra stima, quasi la nostra invidia per le formiche (le formiche, sono formidabili: sapevate che le formiche hanno strategie di politica estera? sapevate che le formiche fanno propaganda? sapevate che le formiche adottano la tecnica dell’inganno? sapevate che le formiche praticano la sorveglianza specializzata e l’assalto di massa? sapevate che alcune formiche lanciano sassolini sugli avversari? e che altre compiono razzie schiavistiche per accrescere la propria forza lavoro e la forza combattente?) distolga i pensieri, perché la deriva è la deriva: bisogna che si derivi. Stare sempre sospesi sulla fune e dimenticare il sentiero della fune; smarrirlo. Non eccitarsi per nulla, ma tutto osservare in compiacimento senza sapere di sorridere con compiacenza. Vedrete che così facendo la vostra mente partorirà idee curiose e colorate. E vincenti.

La mia è questa. Non saprei dirvi se io la penso, o semplicemente mi si figura davanti: un’idea. Un luogo, carino e pulito, in cui ci sono molte ragazze. Un luogo in cui in effetti uno va perché ci sono delle ragazze. Per carità, anche dei ragazzi. E non solo: chiunque. Insomma, un luogo in cui ci sono delle persone. E in questo luogo, un’altra persona, un cliente, va a incontrare queste persone. Mi figuro un ingresso accogliente e sobrio, con piante e tappeti rossi. Soprattutto piante. E specchi. E poltronette e divani, cuscini, dove uno può attendere con calma il proprio turno. E non posso negare che questo tipo di ingresso, questo vestibolo, non sia che un tributo alla deriva della mente che ha partorito questa stessa idea. Queste sono le mise en abyme che posso tollerare. Che dico, tollerare? Apprezzare, perfino. Mi piace l’idea che uno, mentre abita e vive la mia idea, partorisca altre idee. Una catena: idee di idee da idee. Ma questo è un corollario, un modo di ottimizzare gli spazi dell’abitato e della mente, permettendo a tutti di risparmiare energie e di andare incontro all’annoso problema del cambiamento climatico.

Quando è il proprio turno, la persona si alzerà, magari dopo aver registrato su nastro, o più probabilmente al telefono, l’idea appena partorita, sì da non dimenticarla, e si avvierà alla reception con un sorriso soddisfatto. Meglio: più soddisfatto di quanto ci si potesse attendere da un sorriso di sola accoglienza di piante e specchi e tappeti; e poltronette, cuscini. Alla reception, indicherà le sue esigenze. Ci saranno certamente i clienti fissi, gli abitudinari, che ricercando nella loro esistenza delle certezze che permettano loro di dimenticare l’unica vera certezza, cioè la morte, in particolare in quei momenti in cui le operazioni su descritte, quelle del caffè della mattina, non vadano secondo i piani, lasceranno che in reception l’addetto pronunci con confidenza e garbo e tono interrogativo: il solito? Ma gli altri: gli altri sfoglieranno invece un campionario con tutta una serie di tipi umani. Bionde/i/*, brune/i/*, alte/i/*, basse/i/*, tozze/i/*, smilze/i/*, tonde/i/*, dai begli occhi, dagli occhi brutti, sempre che ne esistano, dagli occhi a mandorla, spartane/i/*, civettuole/i/*. Insomma, un campionario di tutto rispetto, che presenti naturalmente qualunque gender possibile, a partire dall’assenza di gender – altra idea, questa, che si presenta alla mia mente durante il caffè, non saprei dirvi se ancora il primo o già il secondo. E non ci sarà da temere la vertigine della scelta, che scaturisce se la libertà di scelta è ampia. Ciò che annulla questa vertigine è il tempo: e noi avremo il tempo dalla nostra. Un tempo ciclico, certo: come quello della vita, dei desideri. Perché sento che questa idea non è destinata a morire: semmai a evolversi. La persona sceglierà, magari senza proferire parola: solo tamburellando l’indice sulla figura selezionata. Alla reception recupereranno il campionario, che mi figuro nero, con i fogli posti ordinatamente in apposite cartelline di plastica: pesante. E introdurranno la persona negli spazi corrispondenti alla richiesta fatta. E qui un aspetto importante della mia figurazione: un ingresso unico, ritagliato rettangolarmente, com’è uso delle porte, in una parete nera, attraverso cui si passerà scostando una tenda del tutto simile a un sipario: parlo quindi di una stoffa rossa, pesante, con le pieghe, che sfiora in lunghezza il pavimento, la cordicella di funaglia avvinghiata attorno a sé stessa, che i più educati sentiranno in dovere di tirare – o, quando particolarmente garbati, di farsi tirare –; si potrà scegliere anche quest’opzione, perché il tempo è dalla nostra e non c’è fretta. Una volta raggiunto il luogo previsto, potranno fare l’amore con la persona scelta. Direte voi: oh, un’idea rivoluzionaria! L’avete detto voi. Io voglio tenere un basso profilo: mi sembra di essere stato chiaro a riguardo.

Sì, questo è un servizio a pagamento. E voglio chiarirlo subito per non dare adito a fraintendimenti. Personalmente, non sono di quelli che vede di buon occhio uno Stato assistenzialista. È giusto che si paghi, ma, detto questo, i prezzi dovranno essere popolari. Su questo non intendo transigere, perché, e me ne accorgo solo ora, è partendo da questa suggestione che la barchetta della mia mente alla deriva si è figurata la sua idea brillante. È una questione di civiltà. E non è tutto: sarà accettato qualunque tipo di buono. Buoni dello Stato, buoni pasto, premi aziendali: tutto deve essere traducibile nella prestazione. E senz’altro ci sarà una collaborazione con il ministero della Sanità: non può assolutamente mancare, nella mia idea brillante, la convenzione gratuita con le istituzioni sanitarie. Le prestazioni saranno quindi assolutamente compatibili con l’istituzione statale e potranno essere rimborsate dalle istituzioni accreditate, private o pubbliche che siano. Qualcuno, perché le menti distruttive non mancano mai, anzi, sembrano proprio preferire questo tipo di idee, cioè quelle brillanti, comincerà a pensare che non si sta parlando se non di creare un altro carrozzone che costerà allo Stato e ai contribuenti milioni di dollari – dimenticando, con la superficialità che caratterizza questo tipo di critiche, che io, da europeista convinto, mi figuro l’operazione assolutamente in euro –; o, che è peggio, rivelando di non controllare punto la proprio loquela al punto da tradire la colonizzazione culturale di matrice statunitense di cui è vittima. Non sarà così e vi dico perché, subito, ché non ho nulla da nascondere, io; e come vi dicevo, e ve lo devo, la mia idea è un’idea brillante: contiamo senz’altro sul supporto dei filantropi di questo mondo, che del resto, ne siamo certi, saranno nostri clienti. Anzi: contiamo di farne altri. Ma non per questo riceveranno una tessera VIP o cose del genere: quando uno capisce che dietro il carrozzone c’è un’idea brillante, che potrà liberamente considerare financo geniale, perché no, perde ogni tentazione di speculazione. Vorrà semplicemente mettersi in fila come tutti, perché grazie a specchi e piante e tende sarà perfettamente consapevole di poter partorire una nuova idea. Magari anche solo di quelle che ti permettono di orientare la giornata, ma mai dire mai. Uno certe cose non può saperle.

Ma questo è solo l’inizio. Non vi ho ancora svelato il core dell’idea, come dicono quelli bravi che vivono a Milano – ah, chiariamo, già che ci siamo: questo luogo non sarà a Milano, naturalmente. L’aspetto, la proprietà dell’idea, che è poi quella che restituisce l’altra proprietà, quella della brillantezza: uno potrà scegliere anche il set. Qualcuno di voi l’avrà già capito, lo so: quella tenda-sipario non era casuale. Come potrebbe esserlo in un luogo così, inserito nel più grande alveo di un’idea brillante? Quel che questo luogo regalerà è il sogno di attraversare una nuova dimensione. Vi dicevo che era un’idea brillante, no? E non posso spingermi oltre, sebbene abbiate ormai capito che io ho in mano un’idea che sincretizza tutta una serie di arti e invenzioni di primo livello. Qui si fa la storia: e lo dico con umiltà. Sapete già del mio basso profilo, ma c’è anche un fatto: perché togliere a voi la possibilità di definire geniale la mia idea, o addirittura rivoluzionaria? Perché privarvi della libertà di questo giudizio? L’avete già fatto, mi pare. Siate ancora liberi, allora, di fare quel che volete. Ma fatemi finire: non amo i pregiudizi. Non amo confezionarli, così come non amo esserne confezionato.

Il cliente, in questo luogo che è tutto tranne che un non-luogo, con buona pace di Augé, che, è ormai noto, non cercava altro che non-luoghi, non-luoghi ovunque per poter rafforzare la sua idea dei non-luoghi, da cui inizialmente non si attendeva neanche tutta quella fortuna, così dice la vulgata, potrà vivere le proprie fantasie sessuali. Mi dispiace che qualcuno rida di questa idea: perché io sono serio. Del resto, so benissimo che a riderne sono soprattutto i bambini: quelli basta che sentono la parola sessuale e con le loro risa spontanee e divertite fanno distrattamente cadere tutti i castelli di carte delle nostre idee, cui tra l’altro lavoravamo di buona lena e con attenzione – perché è così che si lavora ai castelli di carte – a botte di caffè. Ridano pure: un giorno se ne pentiranno! Dunque, sebbene abbia pensato questo luogo aperto a tutti, prevedendo prezzi popolari e convenzioni e incentivi governativi, dichiaro qui, e resti agli atti, che in questo luogo della mia idea brillante i bambini non possono entrare. La ragione è una mera ripicca: tu ridi e io non ti faccio entrare. E non mi si venga a dire che questo tipo di atteggiamento reitera l’archetipo del bimbo che perde al gioco e si porta via il pallone perché questa è l’unica lingua che i bambini conoscono. Soprattutto oggigiorno, quando i bambini non giocano più con il pallone. Tu ridi e io non ti faccio entrare. È una questione di educazione, anche, tra l’altro. E poi, diciamocelo chiaramente: non è un luogo adatto ai bambini. Ma anche se lo fosse…

Fantasie sessuali, dunque. Di ciò si parlava prima che una manciata di marmocchi turbasse la rotta che la mia barchetta tracciava da sé sapientemente, osservando le Pleiadi e Boote che tramonta tardi, e l’Orsa, che chiamano col nome di carro, che ruota su sé stessa e guarda a Orione, ed è la sola a non bagnarsi mai nell’Oceano. Ora, come potete immaginare, la questione delle fantasie sessuali è complessa. Le fantasie sessuali occupano uno spazio infinito. Davanti a questa consapevolezza, che sono certo ognuno di noi accoglierà come ragionevole e attendibile, i più tenderanno a scoraggiarsi. E li comprendo. Ma per fortuna ci sono le idee brillanti. Quando noi abbiamo ritagliato dalla parete una porta rettangolare, noi abbiamo aperto semplicemente uno spazio del possibile. A definire questo possibile è il sipario, che ci autorizza a determinare spazi di spazi. Da piccolo ho sempre sognato un cinema con gli odori. Pensavo, quando ancora neanche bevevo il caffè, a come fosse possibile implementare nello spazio della sala gli odori dello spazio diegetico. Questa cosa che al cinema mancassero gli odori non mi permetteva di vivere appieno il potere magnetico della pellicola: neanche quando ormai della pellicola non era rimasto che il nome: film. Non c’è stata mai piena mimesi tra me e i protagonisti dell’azione. Mi distraevo: quando entravano in un bosco o c’era una sparatoria, cercando io di evocare nella mente la percezione dell’odore delle piante, dell’humus, della polvere da sparo, della striscia degli pneumatici sull’asfalto, del sangue ferroso. Ma è possibile aggirare questo problema se noi trasformiamo lo spazio del reale in spazio diegetico. In pratica, chiudiamo la realtà in uno spazio diegetico, il rettangolo fatale di un televisore, e rendiamo lo spazio diegetico immanente a questa realtà. Eccola l’idea brillante che partorisco quasi al termine del primo caffè, tra il penultimo e l’ultimo sorso. O forse è il secondo. Poco importa, perché è con commozione che vivo questo momento in cui, posando la tazza sul marmo della cucina, il mio sorriso si illumina di un suono argentino.

Ambizioso: so cosa state pensando. E per questo vorreste gettare l’ancora? Per questo vorreste dar credito ai bambini? Basterà organizzarsi. Perché vedete: voi sovrastimate la fantasia. Voi pensate che il terreno della fantasia sia sterminato, addirittura infinito: e sdrucciolevole, certo. Non è così. Tutto ciò è vero solo in potenza: nei fatti, le fantasie sono sempre le stesse e anche piuttosto banali: tali da ridursi a un campionario, sebbene rifinito da una copertina nera, paginette protette dalla plastica; pesante. Come ogni genere cinematografico che si rispetti, anche la fantasia sessuale vive di tradizioni: e se così non è non è colpa mia, ma dei critici, che tali pensieri perpetrano. E si partirà da quelle, perché, e ce lo dice la statistica, buona parte dei clienti partirà dalla propria tradizione. Penso quindi che molti si lanceranno subito nella classica visita dell’idraulico. E noi daremo loro quel che vogliono: un vestito da idraulico e una donna avvenente con soprabito rosa a coprire appena il seno scoperto, che apre la porta dopo aver sentito il campanello avvicinandosi con ciabattine rosa di peluche rosa. Spalancherà i suoi occhioni da cerbiatto, quando vedrà finalmente alla porta l’idraulico, perché diciamoci la verità, un rubinetto che sgocciola e perde è una reale seccatura. Farà entrare all’istante il nostro, il cliente, che avanzerà con la sua tuta blu – ma preveggo che ci saranno più colori, perché quel che faremo non sarà se non aggiornare la commedia dell’arte, e lo dico con umiltà. Avanzerà con la sua tuta blu e la cassetta degli attrezzi e si metterà al lavoro. Ora, capite fin da subito che io sono contro la regia. Io sono per i canovacci. Così come, nel calcio, sono contro gli allenatori e dalla parte dei giocatori. Sono loro che giocano: e nella mia idea sono i clienti che costruiscono da sé la narrazione. È chiaro che per far questo ci vogliono degli attori altamente professionali, ma capite perfettamente dove voglio arrivare. Nella mia idea l’arte diventerà immanente alla realtà: conseguenza implicita, direte voi, del fatto che si sia fatto immanente lo spazio diegetico. Vero, ma secondo voi i bambini ci sono arrivati, a questa cosa? Non credo, presi come sono dal fatto che stanno ancora ridendo. Sarò pure permaloso, ma il pallone è mio.

Il più sveglio tra i bambini dirà che è fin troppo facile lavorare con il canovaccio dell’idraulico. Ma io rispondo ancora con le tradizioni, e rilancio anticipando la domanda che quel bambinone non osa fare. No, perbacco: non mancherà certo il classico bukkake giapponese. Il cliente, qui, avrà inizialmente piena scelta della situazione iniziale: potrà scegliere qualunque vestito desideri, anche se riteniamo altamente probabile sceglierà una divisa universitaria o un classicissimo abito borghese: giacca e cravatta. Questa situazione richiederà ancora, quasi certamente, di girare in esterna: un autobus, una metropolitana, una stazione dei treni. Chiaramente, abbiamo intenzione di richiedere il partenariato del Ministero dei trasporti: e lo avremo, perché irresistibile è la forza delle idee. Non aggraveremo certo il bilancio di ulteriori spese: anzi, finanzieremo l’acquisizione di nuovi vagoni, utili al potenziamento della nostra rete ferroviaria, per renderli successivamente disponibili al pubblico di acquirenti. Il nostro cliente, dal canto suo, una volta entrato vedrà attrici o attori o ****** che nella finzione della realtà diegetica, o realtà della finzione diegetica – critici, al lavoro! – interpreteranno diversi ruoli: casalinga/o/*, studentessa/o/*, business(wo)man/(*), barbona/e/*. Potrà scegliere la vittima preferita e potrà iniziare a molestarla a suo piacimento. E potrà stare tranquillo, perché non ci sono reati nello spazio diegetico, ove tutto è finzione. Soprattutto, si renderà presto conto di quello che tutti sanno, ma nessuno ricorda mai: che uno viene molestato, ma poi gli piace. Questo l’insegnamento della grande tradizione bukkake giapponese. Potrà dettare il canovaccio richiedendo esplicitamente la volontà di essere l’unico protagonista o farsi affiancare da altri attori – cosa auspicabile per la messa in scena, o in atto, di un bukkake. Che sia bus, treno o metro, non mancherà uno schermo che riprodurrà la realtà, chiusa ormai e neutralizzata nel rettangolo di un televisore: e sarà proiettata la sala d’attesa con piante e specchi e tappeti rossi, per ricordare a tutti che qui si fa la storia.

Insomma, siamo già sicuri di poter coprire buona possibilità delle richieste del cliente, al punto che potrei già farne, se non stessi prendendo un caffè, credo ormai il terzo, dei grafici o dei Powerpoint, addirittura dei Prezi, grazie al potere cosmico delle tradizioni, che non starò qui a elencare, ma a riassumere: classificazioni per etnie, dimensione pubblico/privata, babysitting, massaggi, realtà aumentata, threesome, gang bang, orge, autoerotismo, bondage, sq*****g, t**** grosse, c**** grossi, c*** grossi, belle f***e, rosse, t**** piccole, piedi, bionde/i/*, tatuate/i/*, more/i/*, muscolose/i/*, BBW, mature/i/*, teenager, milf. Chi più ne ha più ne metta. E non ci priveremo di una sezione di ricerca e sviluppo per rendere possibile un’esperienza di diegesi immanente con protagonisti di hentai e cartoni animati. Ora che abbiamo l’intelligenza artificiale, tutto è possibile per l’intelligenza artificiale, che certamente ha fantasie sessuali relative a noi umani. Ve l’ho detto, sono umile e voglio un basso profilo: all’inizio potremo avere qualche problema, ma ce la caveremo. Roma non è stata fatta in un giorno e su Marte ancora non ci siamo arrivati. Ma noi, proprio come i Romani ed Elon Musk, ce la faremo.

Tuttavia, c’è un bambino… non è più un bambino, ma con i bambini se ne sta. Ed è forse per questo che non ha il coraggio di dirlo. Vorrebbe, ma non osa, perché anche se non si è più bambini, a stare coi bambini si finisce per esserlo ancora: sempre. Non tema, quel bambino: so benissimo cosa sta pensando. Perché stamane io ho deciso di prendere un caffè lungo. Americano. Black. Ciò significa che la mia barchetta ha viaggiato molto, a lungo, in un mare color del caffè. E ha esplorato molti degli spazi che si è costruita da sé. E per anticipare la domanda del bambino, che per rispetto non riporterò – perché sono permaloso ma umano –, vi dico che sì, il cliente potrà f******* sua madre, suo padre, suo *****. Potrà fottersi chi vuole, il ragazzaccio. Chieda solo scusa. (Come io chiedo scusa a tutti voi per aver dimenticato l’autocensura degli asterischi, ma i pensieri sono così: vengono, accadono). Chieda scusa, il marmocchio non più marmocchio; proprio come ho fatto io ora tra parentesi – lo dico per quei lettori che saltano le parentesi durante la lettura. E studi, che presto avremo bisogno di un sacco di lavoratori. Perché capite che questa idea brillante, di una brillantezza che mi abbaglia, è un’idea che fornirà lavoro a un sacco di persone: una di quelle idee che rimettono in piedi il PIL di uno Stato, che rigenera una nazione. Tipo la legalizzazione della Marijuana, ma senza l’imprevisto di indurre un popolo intero a credere di avere, ogni secondo, idee geniali, quando non sono neanche brillanti, figuriamoci rivoluzionarie. Nessun governo avrà il coraggio o il potere di opporsi: l’occasione è troppo ghiotta. Diciamocelo: è conveniente. E del resto nessuno, oggi giorno, è ormai tanto retrivo da censurare un prodotto artistico. Il caffè è quasi finito, ma io ho ancora un asso nella manica. Sì: il campionario avrà una pagina vuota. Noi vogliamo che il cliente sia personaggio: ma non vogliamo privarlo della possibilità di farsi regista. Siamo contro i registi, non contro la possibilità che un personaggio si faccia regista. Perché mettiamo il caso che il nostro cliente, un sognatore visionario, voglia interpretare il ruolo del Presidente degli Stati Uniti e s******* tutte le fighette o i fighetti o * fighett* che vuole nella sua stanza ovale: chi siamo noi per dirgli di no? Perché vedete, bisogna anche assumersi le responsabilità di quello che uno ìdea. Se uno, nella nostra saletta d’accoglienza di piante, specchi e tappeti rossi, ha l’idea di diventare presidente, perché la sua fantasia sessuale gli ha detto che solo da presidente potrà davvero vivere la sua vita sessuale, noi glielo impediremo? Jamais! Ci sarà dunque un fondo proprio per eventualità del genere, per finanziare il quale siamo pronti a tutto. La filantropia potrebbe non bastare: e noi non esiteremo a candidarci alla presidenza di qualche paese che possa finanziarlo. Esatto: non sono un ingenuo e so benissimo che i governi faranno di tutto per evitare che questa mia idea si faccia realtà. Potremmo – perché no, mai mettere freni alle vision, anche se non si fosse a Milano, perbacco – candidare il cliente stesso. Candidare il cliente stesso alla guida degli Stati Uniti d’America. Noi candideremo alle elezioni i nostri clienti, e inviteremo gli altri clienti ad andare a votare. Ci vorrà del tempo, forse la fantasia sessuale del cliente sarà per giunta cambiata quando sarà pronto, ma poco importa. Saremo pronti a finanziare addirittura programmi spaziali se uno vorrà scoparsi i suoi fighetti, * suo* fighett* e le sue fighette su Marte o Urano. Perché qui non è solo questione di idee brillanti: è una questione di civiltà.

Volete davvero contrastare i grandi problemi della contemporaneità? Cambiamento climatico, intelligenza artificiale, guerre nucleari, migrazioni di massa, crisi delle nascite e quant’altro? E bene, io ho la risposta. E non saranno certo una manciata di marmocchi a farmi cambiare idea. A me basta un caffè o due. O tre. E ora via, è tempo di andare a lavoro. E in questa fottutissima città, fottutissima Milano, c’è sempre un fottuto traffico maledetto tra metropolitane e treni! E io ho perso un bel po’ di tempo a bere questo fottutissimo caffè, Dio quanto mi piace: e vi dirò che sono carico a pallettoni, e se incontro di nuovo quello stronzo che ieri m’ha spintonato in metro gli do la valigetta in faccia, porca puttana!

Al Bar Novecento

Al Bar Novecento, il venticello dei primi giorni di giugno dava un ultimo ristoro ai clienti seduti ai tavolini del giardino. Al di là della siepe, la grande rotonda smistava le auto operaie e borghesi impazienti di rientrare dopo la giornata di lavoro, lunga per l’estate imminente. Ylenia, poggiata alla porta del locale, fumava una sigaretta. Ogni tanto dava un’occhiata al telefono. Il display si accendeva: nessuna notifica.

«Ylenia, stai ancora lì a fumare? Vieni a caricare il frigo!»

Tirò un’ultima boccata, come chi incamera ossigeno prima d’immergersi in acqua, spegnendo poi la cicca con ghirigori vani nel portacenere sul tavolino.

«Ecco, di là! Ci sono le casse d’acqua a sinistra e hanno appena finito di scaricare altre bottiglie sul retro. Con tutto il da fare che c’è, lei si mette a fumare!».

Si limitò a svolgere il compito rapidamente, come un automa. Non era arrabbiata, non era seccata. Era solo annoiata. Il sole di quei giorni, che allungava lento le ombre prima di sparire dietro i palazzi di fronte, faceva i pomeriggi tutti uguali; soliti i doveri, le voci, i gesti; soliti gli avventori.

Apparve Tano, come suo solito. La canottiera nera dai bordi rossi, sempre unta, scolorita, il marsupio alla vita; la barba già incolta, macchiata dell’età; il corpo bruciato, peloso. Prendendo posto al tavolino, gracchiò alla volta del bar: «Vanda, una birra! Ma Ylenia non c’è?».

«Ylenia, hai sentito? Lascia stare l’acqua, vieni qua!»

Ylenia posò l’ultima cassa d’acqua nel quadrante vuoto e completò la colonna. Raggiungendo l’uscita, incontrò il suo riflesso nello specchio della saletta interna: vi si affacciò. Sistemò i capelli, passò le dita sulle occhiaie leggere. Le piaceva guardarsi allo specchio. Richiuse i bottoncini della camicetta celeste: poi ci ripensò. Non aveva un seno grande, ma un corpo flessuoso, agile. Solo un po’ sgrossato dai muscoli: il lavoro.

«Ylenia, sbrigati!» – disse Tano lascivamente. «Sono stato tutto il giorno a spaccare l’asfalto con il martello pneumatico, sai? Madonna, quanto è duro! E dovresti vedere come lo spaccavo: giù e su, su e giù». Ylenia non ci badava: era abituata anche a questo. Era abituata a tutto. Quelle parole non la offendevano: non dimenticava mai chi aveva davanti. Poggiò la bottiglia sul tavolo, tirò via il tappo, consegnò lo scontrino.

«Che c’è? Sei arrabbiata? Non lavori mica solo tu? Fammi un sorriso, no?”. Ylenia guardò Tano in faccia: il suo ghigno sdentato, gli occhi arrossati dal sudore e dalla polvere. Dietro, qualcun altro la fissava: un altro cliente abituale, già seduto alla postazione solita, nell’angolo, in fondo.

«Che fai, chi c’è? Nando, stai sempre lì come una rana! Girati dall’altra parte, perdio!» – gracidò Tano. Nando girò la testa, guardò le piante. «Portami un po’ di patatine! Non quelle stantie di ieri! Di’ a quella taccagna di Vanda di non provarci!».

Ylenia partì. Dietro al bancone, la padrona era intenta a frugare in un cassetto sotto la cassa. «Tieni, prendi qua». Erano gli snack del giorno prima. Ylenia la fissò con compassione. Era avara, certe cose erano più forti di lei. «Beh? Che vuoi? Va’ da Tano, va’!».

In giardino, Tano l’aspettava con il telefonino in mano: lo teneva in modo goffo, come fosse la prima volta che ne usasse uno. Con voce da rana chiese:

«Ylenia, vieni, aiutami che questo coso non lo so usare. Mi è arrivato un messaggio, un SS. Ma non riesco mica a leggerlo, sai? è un’amica, devo rispondere. Capisci, no?».

Ylenia gli s’accostò, sporgendosi dalle sue spalle verso il telefono. Faticava a leggere l’italiano: acuì la vista, si fece assorta. Con la coda dell’occhio notò che Tano le sbirciava la scollatura e con la mano si strofinava. La pancia pelosa saltava fuori dalla canotta larga e corta, piena di unture e di macchie. Si drizzò. Gli prese il telefono, schiacciò qualche pulsante per tagliare corto. L’uomo la guardò andar via soddisfatto, come avesse raggiunto un suo intendimento. E pose mano alla birra ghiacciata.

Era di nuovo all’ingresso a rullare una sigaretta. Nando la fissava sempre. Poi si alzò, come per andarle incontro: il suo passo misurato, sempre uguale, seguiva tra i tavolini un tragitto angoloso. Era tutto nero, i capelli ricci a ciocche grigie legati dietro le spalle: dissimulava il suo imbarazzo con un’austerità innaturale. Era concentrato con tutte le sue forze nella corretta esecuzione di gesti semplici e usuali come spostarsi da un luogo all’altro e mantenersi in equilibrio senza inciampare alle sedie dei tavoli. Si sforzava di apparire a suo agio. E non ci riusciva. Era ridicolo. Il volto emaciato rivelava e confermava la sua spigolosità innata: una carnagione pallida si tendeva longitudinale soprattutto per un naso petroso, sporgente e affilato; gli occhi gonfi, azzurrini, distanti per lo strabismo, saltavano fuori da orbite troppo piccole. A qualche metro da Ylenia, sempre curiosa delle sue goffe passerelle, virò con forza di 90° alla sua sinistra, accedendo ai locali interni dalla porta secondaria. Temeva di passarle troppo vicino. Lei lo seguì con gli occhi. Leccò la cartina e chiuse la sigaretta. A Tano non sfuggì quel gesto. Strappata la carta in eccesso, diede fuoco allo spino. Nando sgattaiolò fuori dal bar con la birra in bottiglia, riprendendo il percorso puntuto fino al tavolino. Stappata la bottiglia, riempì il bicchiere. Le gambe accavallate, le braccia conserte, fingeva di guardare le piante. Attese che ci si dimenticasse di lui e tornò a fissare Ylenia.

Ylenia aspirava studiando il telefono. Si accesero i lampioni, alzò gli occhi: due ragazzini la osservavano. Erano abbronzati. Uno di loro scattò e si diede alla fuga, sparendo con la bici dietro i cespugli del giardinetto. L’altro, spiazzato, indeciso, rimase di sasso. Ylenia lo guardava, come per mettere alla prova la sua curiosità. L’imbarazzo esaltava i tratti infantili del ragazzo. Lei lo guardava e aspirava sensualmente la sigaretta: poi si abbottonò la camicetta. Vanda la chiamò e il giovane ne approfittò per darsi alla fuga.

«Sempre a fumare!»

«E lasciala fumare, Vanda! Stai sempre a lamentarti!» – cicalò qualcuno da dentro.

Lei spense la sigaretta coi soliti ricami e raggiunse la padrona.

«Certo che hai un bel coraggio a fumare, con tua madre in ospedale! E in quelle condizioni, poi! Ma non ti vergogni? Tra l’altro, quanto spendi per quella robaccia? Le acquistassi da me, almeno!». Ylenia prese a lucidare il bancone: finse di non sentirla. La lacca le restituiva di riflesso il suo volto deformato: era carina anche così. Anche così somigliava a sua madre. Era stata proprio così, da giovane: i riccioli legati e acconciati con le spillette; il collo sottile, il naso all’insù; le lentiggini, i grandi occhi castani; i denti bianchi, che il tabacco non intaccava.

Rimise a fuoco il bancone, sempre passandovi la pezza. La madre era invecchiata in poco tempo, era ormai irriconoscibile. Il cancro ai polmoni: di certo il fumo. Ylenia aveva solo lei: andava a trovarla ogni notte. Era stanca, ma voleva starle accanto sempre. Coprì il riflesso rimettendo al suo posto, sul bancone, la grossa tazza con le buste di zucchero.

«Domattina tocca a te; farai doppio turno». Ylenia fissò Vanda sorpresa, con fare interrogativo. «Sì, mattina e sera. Piero non c’è». Ylenia era seria, non smetteva di fissarla. «È inutile che fai quella faccia, sai come funziona qui al bar. Ma non preoccuparti: ho un regalino per te. Non si fa nulla per nulla». Era il saldo della giornata. Ylenia non batté ciglio: prese le banconote e le mise nella tasca del grembiule.

L’estate era al termine. Sulle giornate d’afa incombevano le prime nubi, le prime piogge. I giorni s’accorciavano, riprendeva il traffico dei giorni feriali: le colazioni, gli impiegati del pranzo, gli aperitivi degli studenti, le coppie a cena. Ylenia se ne stava lì a fumare, poggiata all’ingresso del bar. La madre era morta a metà agosto. Aveva smesso di soffrire. Si consolava così, celando più facilmente a sé stessa la sua terribile solitudine. Per il funerale aveva speso tutto quello che aveva. Non poteva fare altrimenti, non avrebbe fatto altrimenti. Non l’aveva aiutata nessuno, ma per fortuna il lavoro era ripreso bene. Diede un’ultima boccata e spense la sigaretta girandola nel portacenere: faceva il simbolo dell’infinito. Si affacciò allo specchio: il seno gli s’era gonfiato. Non era solo per il reggiseno nuovo, di sua madre. Pose mano ai bottoncini della camicetta: li richiuse.

Qualche giorno dopo, si fermò al bar una macchina nera: era lucida, di grossa cilindrata. Non era la prima volta. Era di un uomo curato e sempre elegante, sempre ben vestito, ben rasato, sempre con gli occhiali da sole. Ylenia lo riconobbe. L’uomo si guardò intorno: quando la vide, si abbottonò la giacca e mosse verso di lei. E lei ebbe un sussulto:

«La signorina Ylenia, vero?» – glielo chiese con discrezione, a voce bassa, quasi parlandole all’orecchio.

Ylenia annuì, un po’ in imbarazzo.

«Bene: sono Ivan, piacere». E dopo la mano, allungò alla giovane un biglietto da visita lucente. Il logo rosa ritraeva il profilo di due gattini stretti l’uno all’altra, inquadrati in un cuoricino. In alto, la scritta Blah Blah, i contatti: in caratteri di una certa finezza. A penna, un numero di telefono cellulare. Ylenia conosceva il locale: lo conoscevano tutti. Si guardò intorno intimorita, come temesse di essere vista.

«Diamoci del tu, Ylenia, ti va? Ho una proposta». Non abbandonò la sua espressione di timore. «Non ti preoccupare, non si tratta di… insomma, il nostro è un locale serio. La nostra è arte. Noi siamo degli impresari. Cerchiamo ragazze come te. Non hai nulla da temere. Vedrai, ti troverai bene».

«Ylenia, torna qui!», urlò Vanda più forte del solito. Ylenia si girò. Guardò Tano, chino sul telefono: si toccava. Guardò Fernando: era lì che la fissava. Guardò Vanda, che la riguardava a sua volta, insospettita da quell’uomo.

«Beh? Hai perso la parola?”, disse l’uomo.

Ylenia gli sorrise. Alzò il dito, bussò davanti alla sua bocca chiusa. Sorrise di nuovo.

«Oh… perdonami» – disse il giovane – «non immaginavo, non sapevo». Ylenia si sentì lusingata. Tornò al biglietto da visita: lo chiuse tra le mani. Levò la testa: annuì. Liberò il grembiule, se lo tolse e lo lasciò sul tavolo. Indicò la macchina, facendo capire all’uomo di essere pronta. «Vuoi andare già adesso?». Ylenia alzò le spalle. «Ma certo, perché no? Andiamo». Vanda la vide avanzare verso la pista ciclabile, verso la macchina. La richiamò invano. L’uomo aprì la portiera. Prima che l’auto partisse, Ylenia scorse tra i cespugli un ragazzo in bicicletta: la guardava andar via.